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Ecco il vero racconto della caduta del Duce

Un «verbale ufficioso» consente di ricostruire i momenti drammatici del 25 luglio 1943

Ecco il vero racconto della caduta del Duce

Come cadde realmente il fascismo e cosa accadde nella drammatica seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio 1943? Sappiamo che la Monarchia, tramite Dino Grandi, svolse un ruolo decisivo. Sappiamo che anche il Vaticano, con Galeazzo Ciano, fece la sua parte. Sappiamo, naturalmente, che il controllo delle Forze armate che aveva il generale Badoglio fu determinante. Ciò che non sappiamo è come andarono effettivamente le cose nella seduta del Gran Consiglio perché il verbale ufficiale fu distrutto dai gerarchi Guido Buffarini Guidi e Carlo Scorza. Non lo sapevamo almeno fino ad ora.

Lo storico Antonio Alosco ha scovato una «documentazione finora inedita» tra le carte del Regno del Sud e «conservata nell'Archivio privato di Pasquale Schiano, all'epoca segretario del Centro Meridionale del Partito d'Azione» che può essere considerato un «verbale ufficioso» della seduta in cui Mussolini fu messo in minoranza e fu arrestato. Il documento, infatti, narra in modo molto dettagliato e con dovizia di particolari la riunione dell'organo supremo del regime fascista: non solo episodi ed aneddoti che potevano essere conosciuti solo da chi partecipò alla seduta del Gran Consiglio, ma anche il modo in cui i congiurati riuscirono a controllare la Polizia, i Carabinieri Reali e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Per questo motivo, il verbale «probabilmente fu redatto da un componente del Gran Consiglio rifugiatosi nel Meridione all'ombra della monarchia»: il grande avvocato e giurista Alfredo De Marsico - noto anche per il motto fulminante: «meglio essere un ex che una x»- che rivide il testo dell'ordine del giorno Grandi, che andrebbe meglio definito ordine Grandi-De Marsico.

Lo studioso Alosco, che da collaboratore di Renzo De Felice non è nuovo a ritrovamenti di documenti storici così importanti, illustra l'importante scoperta filologica nel libro Socialismo tricolore. Da Garibaldi a Bissolati. Da Mussolini a Craxi (grauseditore) nel capitolo dedicato, appunto, alla caduta del regime mussoliniano. Ciò che viene fuori è una sorta di cronaca di quell'ultima riunione del Gran Consiglio che smentisce le ricostruzioni finora tentate che, forse, troppo facilmente sulla base di memorie hanno avvalorato l'idea che il regime di Mussolini si sciolse come neve al sole. Il documento, infatti, non trascura neanche qualche aneddoto curioso ma secondario o addirittura tragicomico «come il doppio svenimento con relativo pianto a dirotto» di Carlo Pareschi che poi «trovò la forza alla fine per votare a favore dell'ordine del giorno Grandi, di cui peraltro era firmatario». Pareschi, che fu ministro dell'Agricoltura dal 1941 al 1943, venne poi arrestato, sommariamente processato, condannato e fucilato con De Bono, Ciano, Marinelli e Gottardi.

Un momento particolare della seduta riguarda il voto, contrario a Mussolini, di Giovanni Balella, presidente della Confindustria: «Il voto non rappresentava una sua opinione prettamente personale, ma l'opinione dell'intera organizzazione degli industriali». Il verbale ufficioso parla di una «breve interruzione» e dell'ingresso dell'usciere che comunicò a Balella che «egli era stato cercato telefonicamente in continuazione per tutta la notte». Il presidente della Confindustria uscì per parlare al telefono e la sua uscita mise in allarme i firmatari dell'ordine Grandi che sospettavano una contro-mossa o, come scrive Alosco, «un perfido contro complotto». Non a caso proprio Dino Grandi disse: «Attenzione, si sta preparando il nostro assassinio».

I principali artefici della congiura furono Grandi e Luigi Federzoni, con il contributo importante di De Marsico. Grandi e Federzoni erano stati insigniti del Collare dell'Annunziata ed erano, dunque, cugini del re. Anche Ivanoe Bonomi ricevette la stessa onorificenza e appoggiava il colpo di Stato dall'esterno e di lui, non a caso, si parlò inizialmente come del futuro capo del governo, ma erano della partita anche Vittorio Emanuele Orlando e Alberto Bergamini. La discussione del Gran Consiglio, dopo la fase introduttiva, divenne drammatica tra invettive e offese. Mussolini ricorse alle minacce e rivolto al segretario del Pnf, Scorza, gli disse: «Forse dovrò darvi l'ordine di arrestare questi messeri». Avvenne il contrario: si giunse alla votazione e il Duce fu messo in minoranza. Ma la riuscita della congiura fu opera di Badoglio e Carmine Senise, ex capo della Polizia. Quest'ultimo la mattina stessa del 25 luglio, su ordine di Badoglio e senza che fosse avvisato l'allora capo della Polizia, Renzo Chierici, ritornò al comando della Polizia. I Carabinieri, che erano rimasti orfani del generale Azolino Hazon, devotissimo di Mussolini, che morì il 19 luglio nei bombardamenti di Roma, erano sotto il controllo di Badoglio. Di fatto nelle mani di Mussolini vi era solo la Milizia comandata dal generale Galbiati che gli fu fedele. Proprio Galbiati, prevedendo il peggio, aveva predisposto «uno schema di telegramma circolare» da inviare «a tutti i comandanti della Milizia di tutte le città d'Italia»: il messaggio dava «l'ordine di mobilitazione di tutti i militi e tenersi pronti per ogni eventualità». Ma qui avvenne il doppio colpo di scena.

Il generale Galbiati «era convinto che il suo telegramma avesse raggiunto i destinatari e che poteva disporre di tutta la Milizia fascista d'Italia, invece, Senise prima impedì che partisse il telegramma di Galbiati e poi, con Badoglio, ne inviò uno scritto da lui «con la firma apocrifa di Galbiati» che comunicava «che per il futuro la Milizia faceva parte integrante dell'Esercito». Con questo stratagemma, raccontato nel «verbale ufficioso», tutte le Forze armate di ogni ordine e grado erano sotto il controllo di Badoglio, del nuovo governo e del re.

Più una sorta di cambio di dittatore che di regime.

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