Cultura e Spettacoli

Il film del weekend: "L'uomo che vide l'infinito"

Una biografia classica dal punto di vista formale ma con alcuni guizzi contenutistici degni di nota, come il rapporto tra genio e ispirazione e quello tra Dio, numeri e bellezza

Il film del weekend: "L'uomo che vide l'infinito"

Al cinema negli ultimi anni non sono certo mancati ritratti di grandi personalità del sapere mondiale, basti pensare al John Nash di "A Beautiful Mind", all’Alan Turing di "The Imitation Game" e allo Stephen Hawking di "La teoria del tutto". È ora la volta di un genio della matematica dei primi del 900, Srinivasa Ramanujan, alla cui vicenda biografica è dedicato "L'uomo che vide l'infinito", film in uscita in questi giorni.

Ramanujan (Dev Patel) è un indiano, nato povero, che sopravvive facendo il contabile a Madras. Innamorato della matematica e completamente autodidatta, il giovane considera le sue intuizioni in materia un dono divino, attribuendone il merito a una dea indù. Lavora con dedizione alle proprie teorie e ne invia un assaggio in una lettera a un professore famoso dell'epoca, G.H. Hardy (Jeremy Irons). Intuite le enormi potenzialità del ragazzo, lo studioso lo convoca nel 1913 al Trinity College di Cambridge, deciso a fargli da mentore. Seguiranno cinque anni di collaborazione in cui i due saranno osteggiati dallo snobismo di una comunità accademica che non tollera Ramanujan per diversi motivi tra cui razzismo, pregiudizio e invidia. Ad ogni modo, i risultati scientifici ottenuti dal giovane cambieranno per sempre la storia della matematica.

Il film è tratto dal libro omonimo di Robert Kanigel e deve il suo fascino non tanto alla confezione impeccabile o alla recitazione altrettanto centrata di Jeremy Irons e di Dev Patel, quanto al fatto che la vita di quello che è stato uno dei più grandi matematici del 20° secolo abbia avuto sembianze romanzesche. Dalla nascita in una cultura povera di mezzi e ricca di misticismo all'incontro fondamentale con un individuo, un accademico, opposto per carattere, formazione ed estrazione sociale, la pellicola descrive tutto in maniera attenta.

Dal punto di vista prettamente cinematografico l'opera non brilla per originalità, eppure ha qualcosa che la fa ricordare: alcune peculiari caratteristiche che ne costituiscono un valore aggiunto. Se nella forma, infatti, il film appare oltremodo convenzionale, nella sostanza suggerisce allo spettatore l'esistenza di una dimensione invisibile, avvinta al genio attraverso il mistero dell'ispirazione, che dà significato alla realtà materiale. Il film seduce grazie alla contrapposizione tra la fede che il protagonista ha in una fonte trascendentale di conoscenza e l'abnegazione che gli uomini di scienza suoi colleghi hanno nei confronti della dimostrazione empirica di ogni teoria. Ramanujan è discriminato e incompreso. In lui umiltà e fame di affermazione camminano assieme. Da un lato egli non si attribuisce in tutto e per tutto la paternità delle sue formule poiché ritiene fermamente siano già presenti in natura, come schemi soggiacenti a tutto il Creato, e aspettino solo di essere rivelate. Dall'altro, ha un forte egocentrismo alimentato dall'urgenza di lasciare traccia di quell'eterno con cui è in comunicazione, come se sapesse che il tempo a disposizione per farlo è tutt'altro che infinito. A contribuire al suo spaesamento all'interno della comunità scientifica, saranno anche la nostalgia per la moglie lontana, la xenofobia di alcuni cattedratici e l'arrivo della guerra.

La dicotomia tra mentalità orientale e occidentale, l'estasi creativa del genio e la matematica come linguaggio di Dio, sono solo alcuni degli scorci in grado di nobilitare un film che altrimenti, a livello strutturale, sarebbe stato un biopic come tanti altri.

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