Cultura e Spettacoli

Flaiano, Irene Brin, PPP e il sale della "dolce vita"

Negli anni '60 della Capitale si sposavano vestigia imperiali e spirito di borgata. Creatività, intraprendenza e un po' di follia. Ma già Fellini metteva in guardia dal pericolo svacco...

Flaiano, Irene Brin, PPP e il sale della "dolce vita"

«Coraggio, il meglio è passato» scrisse Ennio Flaiano all'inizio degli anni Sessanta salutando la Roma «povera ma bella» che li aveva preceduti. Nella capitale, il decennio postbellico si era aperto con il premio Strega da lui vinto con Tempo di uccidere e gli anni Cinquanta si sarebbero chiusi con un duplice canto del cigno, letterario e cinematografico. Ancora lo Strega al Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, davanti al pur meraviglioso La casa della vita di Mario Praz; la consacrazione della Palma d'oro a Cannes per La dolce vita di Federico Fellini.

Quella Roma lì aveva il già citato Praz alla cattedra di inglese alla Università della Sapienza, Giovanni Macchia a quella di francese, Ettore Paratore per il latino, Ugo Spirito per la filosofia teoretica, Giuseppe Tucci per il sanscrito e il tibetano, Angelo Brelicher per la Storia delle religioni... Era la Roma di Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente», l'autore di «distesa estate/ stagione dei densi climi/ dei grandi mattini», con il suo centro storico scalcinato e seminato di bordelli, «vizio e sole, croste e luce!» scriverà Pasolini a un amico, dove gli intellettuali vivevano in camere ammobiliate o stavano a pensione, la vita costava poco, non si guadagnava molto, si mangiava a credito. Era una città di una bellezza indicibile, dove la maestosità dei monumenti conviveva con le botteghe, il latte era venduto in bottiglie di vetro, le sigarette «sciolte», le vie si chiamavano consolari. Si prendeva la Flaminia, si imboccava la Cassia e l'Appia e così si attraversavano le regioni. Si andava al ristorante raramente, quasi sempre di domenica, i fuori porta di una città in cui la periferia non aveva ancora mangiato la campagna, in macchina si raggiungeva il mare in venti minuti, c'erano già gli stabilimenti, non ancora la folla...

La «dolce vita» non era un'invenzione felliniana. La «Hollywood sul Tevere», via Veneto e i paparazzi, le sbronze e le botte, il gratin mondano che mischiava cinematografari e romanzieri, giornalisti e pubblicitari, il diavolo degli spogliarelli al Rugantino e dei festini a Capocotta con l'acqua santa delle messe nelle cappelle dei palazzi nobiliari e di un fanatismo popolare da miracoli fuori porta esisteva veramente e negarlo sarebbe stupido, oltre che falso. Ed era vera anche una certa messa in mora della politica, cristallizzata nella sua forma di partito, potente, certo, ma non così invasiva come sarebbe diventata nel decennio successivo, quando la nascita del centro-sinistra avrebbe significato la messa in campo dei sindacati e delle masse operaie, l'affiliazione del ceto medio pubblico e privato e insomma la politica giocata nelle piazze, l'elettorato usato come massa di manovra, il ricorso sempre più spinto alla società che stava fuori dai palazzi del potere.

Era la Roma di Irene Brin, al secolo Maria Rossi, giovane scrittrice che era stata scoperta da Giovanni Ansaldo e lanciata da Leo Longanesi. Oltre a divenire la capostipite inarrivabile di un certo giornalismo femminile, colto, elegante, raffinato, snob, le gallerie d'arte da lei dirette, «L'obelisco» prima e poi «La tartaruga», esporranno per la prima volta Magritte e Dalí, Rauschenberg e Matta, Vespignani e Burri, Dorazio e Perilli, anticipando quel decennio dei Sessanta, via Margutta e dintorni, dove la neoavanguardia pittorica e letteraria si muoverà con un furore che non contemplava prigionieri, spingendo sempre più il pedale della sperimentazione, di pari passo con un Paese febbrilmente teso alle nozze con la modernità.

Nell'aforisma di Flaiano citato all'inizio, c'è la chiave di volta che aiuta a capire come la creatività, anche sgangherata, ma libera, di quella Roma «povera ma bella» trovi la sua continuità e insieme il suo rigetto in quella del boom e della «voglia matta» del decennio successivo, per poi impantanarsi nel conformismo ideologico degli anni Settanta e infine affondare nel pastrocchio insulso che è ormai la sua ragione d'essere. Racchiude insomma la fine delle illusioni del dopoguerra, la consapevolezza che ciò che ci attendeva era solo decadenza, fiammeggiante all'inizio, sempre più cenere al suo epilogo. Nel raccontare La dolce vita , Fellini sarà più esplicito: «Vogliamo piantarla con le fregnacce, le illusioni sbagliate, i qualunquismi, le passioni sterili? È tutto rotto. Non crediamo più a niente. E allora? Tutto questo detto virilmente, senza nostalgie, senza sentimentalismi». In anticipo, Fellini vedeva ciò che nella Roma, ovvero nell'Italia, d'allora, era ancora embrionale: lo svacco e lo sbraco, la crisi delle idee e degli ideali, l'asservimento intellettuale, lo strapotere dei soldi, il venir meno delle élites . La morale la tirerà, al solito, il povero vecchio, grande poeta Cardarelli: «La speranza è nell'opera/ Io sono un cinico che ha fede in quel che fa».

Tutto però era ancora in fieri , tutto doveva ancora avvenire.

In attesa di «rapallizzare» le coste, di cementificare il paesaggio, Roma, ovvero ancora, e sempre, l'Italia, offriva a chi la guardava un'impressione di armonia: l'armonia di chi non aveva perso la propria identità.

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