Cultura e Spettacoli

Tra gelo e morte. Olmi racconta la guerra "umana"

Il regista presenta la pellicola sulle battaglie ad Asiago del primo conflitto mondiale

Cent'anni dalla Grande Guerra: l'erba è alta sulla carne umana. Così Ermanno Olmi titola Torneranno i prati il suo drammatico film su quanto è realmente accaduto, negli altipiani di Asiago, dopo gli ultimi scontri del 1917. «Quand'ero bambino, mio padre, bersagliere sul Piave, andò in guerra. Quando facevamo capricci, diceva: “Se viene la guerra, capirete che cosa vuol dire litigare per un boccone”», ricorda l'autore, classe 1931. È tanto che dice di voler smettere il mestiere di regista. Ma nella sua Asiago, tra l'Ossario con i 50mila morti a un passo dal set, ogni emozione è possibile. In Val Giardini una trincea di 63 metri, si snoda a 1.100 metri: è al suo interno che ufficiali e tenentini, «gente preziosa meno di una mucca, all'epoca dei latifondi», terranno duro, faccia a faccia col nemico austriaco. Tra Il deserto dei Tartari di buzzatiana memoria e Il sergente nella neve di Rigoni Stern, si profila un film onirico. Qualcosa che ha a che fare con la rivisitazione della Storia e l'onestà intellettuale. «La guerra é un virus conosciutissimo anche nelle famiglie. Il conflitto, anche verbale, s'è fatto così forte, che sei fai uno starnuto, ti mandano a fanculo», considera il Maestro.

Sul set, aperto a ottobre s'è accanito il cielo. Tormente di neve, fulmini e nebbia per tutto l'inverno. Cercavano la «notte americana» e i fiocchi bianchi sparavano una luce abbacinante. A volte, pensavano di sospendere le riprese. Ci voleva il gelo, comunque, perché Claudio Santamaria, l'ufficiale, avesse «la faccia e i movimenti del freddo». E capitani e attendenti tirassero il grilletto dei fucili. Armi spesso prestate dagli asiaghesi: chiunque, da queste parti, ha in casa un cimelio e la comunità ha fatto a gara per fornire pezzi d'epoca. «Vorrei che fosse un film utile, prima che bello. In ogni celebrazione, c'è il pericolo dello sventolìo di bandiere», nota il regista, che racconterà, con questo film in odore di Venezia, «tutte le storture della guerra narrata dagli intellettuali, da chi non ha vissuto, come testimone, quel conflitto». Ma perché questa guerra, perché il 1917, anno chiave per l'Italia, che nella disfatta di Caporetto vivrà l'umiliazione? «Dobbiamo conoscere la Storia, altrimenti non sarà maestra di vita. Capire quel che è successo, perché siamo a una vigilia che rischia di somigliare molto a quella vigilia. La guerra è l'atto più stupido che l'umanità possa compiere. Il mio discorso sulla guerra somiglia a quello sull'onestà: sono pochi quelli che l'hanno patita, la Storia», scherza Olmi.

E ti travolge con le citazioni: da Camus («Cambiamo la vita con l'esempio») a Einstein («Non pretendiamo che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose»). Ma cosa accade in Torneranno i prati, di cui Olmi firma soggetto e sceneggiatura? «C'è una disubbidienza: dai comandi superiori arrivano ordini, che verranno disattesi. Un alto ufficiale e un soldatino senza nome saranno vittime. E tutti torneranno a casa», spiega, lasciando intendere che quegli eroi sconosciuti tornano stesi nelle bare, a concimare il terreno, dove altri prati cresceranno. A futura memoria, dove ignari turisti passeggiano. «C'è questa sonnolenza, nella nostra democrazia. Questa nebbiolina che ci avvolge. Particolarmente a chi non va a votare, io dico: sveglia! Molti morirono per quel diritto della democrazia, che è un dovere». Fuori, il nipote di Rigoni Stern guarda il girato. Olmi, invece, non rivede mai nulla. «Voglio essere sorpreso anch'io», rivela. In un'ora e mezzo d'un film buio, che somiglierà a Il mestiere della armi per l'oscurità che lo avvolge, si parlerà «d'una guerra ancora umana», dov'era possibile che il soldato canterino venisse risparmiato per i suoi canti.

Sarà la guerra raccontata da «Toni Mato», il pastore Toni Lunarda, che sui bastioni faceva la spola: siamo dalle parti de I recuperanti (1969), il film che rivelò Olmi e quella pagina ignota dei recuperatori di bombe. Ma il massacro dei 600mila soldati italiani, «cittadini-soldati e non mercenari, come ora, col nemico globalizzato», parlerà alle giovani generazioni? «La disobbedienza è un atto morale, che diventa eroismo se la paghi con la morte». L'alto ufficiale e il tenentino diranno no agli ordini superiori, «altro che Eichmann», e forse i più giovani capiranno che siamo ancora in tempo. «Ce la faremo. Anche se, rispondendo col botteghino, è come se tutti i giorni mangiassimo panettone.

Per favore, dateci un po' di pane e mortadella!».

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