Cultura e Spettacoli

Un gradino per volta, strisciando La scalata dello storpio Visconti

Filippo Maria (1392-1447) attese di essere abbastanza forte Poi si liberò della moglie e dei suoi avversari politici a Milano

di Matteo Strukul

Voleva salire fino in cima alla torre. Sapeva che avrebbe impiegato un'eternità ma giurò a sé stesso che sarebbe riuscito nell'impresa. Un soldato si era offerto di aiutarlo ma lui lo aveva incendiato con lo sguardo. A ogni scalino spingeva sui bastoni. Faceva forza sulle braccia. Non era certo una novità. Avanzava lento, con fatica, sulle gambe magre, rachitiche. Procedeva traballante, mentre masticava imprecazioni fra i denti, maledicendo sé stesso e ancor più i suoi genitori che lo avevano relegato in quell'inferno di dolore e inadeguatezza fin dalla più tenera età.

Quando infine superò l'ultimo gradino, era madido di sudore. Le braccia quasi gli tremavano per lo sforzo sovrumano. Si appoggiò ai merli delle mura, abbracciandoli, lasciando che i bastoni cadessero a terra.

Alta, massiccia, la torre svettava contro il cielo. Sorgeva in corrispondenza dello spigolo del castello, dominando la vista. L'aria iniziava a virare verso il rosso dell'aurora. Il vento freddo dell'inverno gli sollevò il mantello che poi ricadde. Fino alla raffica successiva, quando si alzò di nuovo. Filippo Maria se lo strinse sulle spalle, il collo in pelle di lupo gli carezzò le guance come una calda lusinga.

Binasco. Stava quasi a metà fra Milano e Pavia. Non era quello il luogo perfetto affinché il suo piano giungesse a compimento? Lui, che a quelle due città aveva sacrificato la sua intera vita? Guardò giù. Vide sotto di sé il profondo fossato. Oltre, stavano alberi spogli dai rami ritorti, quasi intirizziti dal gelo. Più in là, casupole in rovina, fattorie di contadini. Si girò, volgendo gli occhi al cortile del castello, là dove il patibolo avrebbe accolto la vittima. Vide i fuochi delle torce baluginare nell'aria rosata del mattino.

Odiava Beatrice. Dal più profondo del suo cuore. Aveva dovuto sposarla perché Facino Cane lo aveva obbligato. Voleva che Beatrice fosse sicura, protetta. Lo aveva mormorato con la bocca piena di catarro e sangue, sul letto di morte. Beatrice! Che non avesse a soffrire alcun male. Certo! E lui, per sei anni, l'aveva sopportata. Sei interminabili anni! Aveva accettato che lei lo trattasse come un servo, un inferiore, un ragazzino con il moccio al naso, lui che aveva vent'anni meno di lei e che era l'unico legittimo successore al ducato di Milano! Era stato ai suoi ordini, aveva sopportato i capricci, le tante umiliazioni che lei gli aveva inflitto. Aveva ascoltato paziente gli ordini che gli impartiva, sorridendo, nutrendo l'ira che covava in lui come un cucciolo di fiera. Con buona pace dei Soloni di corte che si erano convinti lo avesse fatto per equilibrio, amor di patria e rispetto dei morti. Beatrice, da cagna qual era, come recitava il suo cognome, gli era servita: portava in dote quattrocentomila ducati e vantava diritti su Alessandria, Tortona, Casale, Novara, Vigevano, Biandrate, Varese e la Brianza intera. Lo avevano guidato calcolo e opportunismo. E così, in un colpo solo, aveva recuperato al ducato, il suo ducato, terre, uomini, risorse.

Ma nemmeno per un istante aveva pensato di poter vivere davvero con lei. Certo, era ancora bella, malgrado i quarant'anni compiuti. Sapeva come compiacere un uomo. Fin troppo! Ma non era lui il centro delle sue attenzioni. Giammai. Aveva sempre saputo che lo tradiva. Ma non era mai riuscito a provare le sue infedeltà. Quella puttana era furba. Dunque, lo disgustava. Ma nell'ombra, contando i giorni, succhiando fiele, aveva atteso il suo momento. In sei anni era cresciuto. E anche se non era diventato più forte, anche se le sue inutili gambe non erano guarite, anche se il ventre si era gonfiato e lui aveva scoperto di essere un uomo brutto e storpio, gli era però riuscita la cosa più importante, quella che cancellava in un solo istante tutte le menomazioni, gli scherzi della natura: era diventato il duca di Milano. Non di nome. Ma di fatto. Aveva conosciuto i suoi nemici, quelli dichiarati e quelli che, ben più pericolosi, tessevano trame ai suoi danni, sorridendogli e parlandogli con voce flautata.

Aveva imparato a diffidare di tutti.

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