Cultura e Spettacoli

La Grande guerra di Keyserling è un tragico gioco da bambini

Una vacanza come tante viene turbata dallo scoppio del conflitto, che il piccolo e fragile Paul vive a modo suo: un estratto dal romanzo di Eduard von Keyserling

La Grande guerra di Keyserling è un tragico gioco da bambini

Giunsero quiete giornate di tarda estate, durante le quali la vita scivolò via quasi senza eventi sotto il frinire cantilenante dei grilli e il ribattere delle falci nei campi. Paul si stupiva che nulla fosse mutato da quando era scoppiata la guerra. Le mucche continuavano come sempre a essere condotte al pascolo, i villeggianti con i cappelli di paglia e gli ombrellini colorati continuavano come sempre a passeggiare lungo il viale con gli abeti. Dalle finestre aperte della villa giungeva fino in giardino il limpido canto della signora Irene. Talvolta lei sedeva in compagnia della moglie del maggiore Welker nel pergolato di lillà, mangiavano insieme ciliegie avvolte in un cartoccio e ridevano tutte allegre come se non ci fosse nessuna guerra. Talora Paul aveva persino l'impressione che la guerra fosse stata dimenticata, benché di quando in quando giungessero notizie di vittorie. Allora sulle case sventolavano le bandiere, e i bambini, sotto la guida di Lulu e Nandl, scendevano in strada intonando a squarciagola canti patriottici come Die Wacht am Rhein e Deutschland, Deutschland über alles. Quando li vedeva arrivare, Paul aveva un solo ardente desiderio, poter unirsi a loro. Una volta gli fu permesso e si aggiunse al corteo, ma Lulu se ne uscì dicendo che Paul non era in grado né di marciare, né di cantare, e che dava solo fastidio, «rimani con la tua balia, vermiciattolo» concluse. Alcuni bambini risero, Paul uscì dal corteo e si mise sul ciglio della strada lasciando che gli altri proseguissero. Si era fatto pallidissimo in volto, ma non pianse. Sfilato il corteo, il ragazzo si voltò sui suoi passi e si diresse verso il giardino di casa. Camminava con la schiena dritta, dondolava le braccia avanti e indietro, voleva far vedere che non gli importava, ma sentiva che quello era il dolore più grande della sua vita. La sera, a letto, si mise a piangere, non riusciva a prendere sonno, febbricitante per la rabbia e l'indignazione fissava con gli occhi sbarrati l'oscurità e pensava alle imprese inaudite che avrebbe voluto compiere per costringere Lulu e Nandl ad ammirarlo.

Da quel giorno Paul si prefisse di non pensare più alla guerra. Lulu poteva pure tenersela tutta per sé. Ma era lei, la guerra, a non mollarlo. La sera, accanto alla lampada, la zia Dina leggeva il giornale ad alta voce, lentamente e con espressione. Paul sedeva sul divano, appoggiato alla madre, stanco del giorno; serrava le palpebre per poi osservare i fili dorati guizzare intorno alla fiamma della lampada, mentre i lunghi resoconti del conflitto gli lambivano l'orecchio, vaghi e monotoni: città in fiamme, rombi di cannoni, trincee e sempre caduti, di continuo morti, in una sequela infinita gli sfilavano davanti. La zia Dina leggeva le cifre con mesta solennità.

Talora Paul domandava: «Mamma, stiamo vincendo?».

E la signora Irene rispondeva: «Sì, bambino mio, stiamo vincendo».

E, mentre ascoltava, Paul cominciò a vedere con chiarezza un'immagine, sempre la stessa: lunghe trincee gialle, gialle e profonde come la cava di ghiaia alle porte del villaggio, trincee sulle cui pareti scorreva del sangue, del sangue rosso vivo. Di fronte, però, giacevano i morti, tutti illuminati dal sole, a perdita d'occhio solo morti. Paul non aveva ancora mai visto un morto, eppure con quale chiarezza gli apparivano lì distesi quei soldatini rigidi con i pantaloni rossi, i visi cerei e gli occhi vitrei e ciechi, occhi come quelli di una lepre vista una volta in cucina, che suo padre aveva riportato da una battuta di caccia. Quell'immagine non lo abbandonava mai, inseguendolo anche nei sogni. Durante il giorno, giù in giardino, tracciava piccole trincee nella ghiaia, le riempiva di bocche di leone e, seduto sulla panchina, vi lanciava contro dei sassolini.

Poteva trascorrere così delle ore, e se riusciva a colpire parecchie bocche di leone, allora rideva trionfante e una sorta di piacere crudele gli attraversava il corpo.

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