Cultura e Spettacoli

Helen Mirren a Roma: «Un quadro di Klimt per ricordare l'Olocausto»

«Mi diverte molto Checco Zalone», dice il premio Oscar Helen Mirren ( The Queen , 2007), che a settant'anni coglie un'altra occasione d'oro con Woman in Gold di Simon Curtis (dal 15 ottobre), dov'è protagonista d'una storia vera sullo sfondo dell'Olocausto. Chi l'avrebbe mai detto che la gran dama dell'autorevole triumvirato inglese formato dalle attrici Maggie Smith e Judi Dench apprezzasse Checco? Eppure, nella masseria pugliese di Tiggiano, dove Helen vive molti mesi all'anno con il marito, guardare film italiani è uno dei passatempi, insieme a «curare l'orto, prendere il caffè in piazza, andare al supermarket», spiega lei, che da ragazza era «una bionda con delle grandi tette» (così nella sua autobiografia), anche impiegata da Tinto Brass in Caligola . E oggi? «La mia energia e la mia ispirazione vanno nell'arte drammatica. È il modo in cui voglio vivere: mi sono auto-insegnata ad essere paziente, quanto alle intrusioni nella mia vita privata. Per me conta raccontare storie».

E infatti, con il suo talento incarna alla perfezione Maria Altmann, ebrea austriaca emigrata negli Usa ai tempi dell'«Anschluss», quando i nazisti requisivano i beni degli ebrei facoltosi, compreso il prezioso ritratto che Gustav Klimt, iconico esegeta dello Jugendstil , fece alla zia di lei, Adele Bloch-Bauer. Morta nel 2011, a 94 anni a Beverly Hills, dove gestiva una boutique, la combattiva Maria è passata alla storia per aver lottato strenuamente, patrocinata da un giovane avvocato losangelino (nel film è Ryan Reynolds), anche nipote del compositore austriaco Arnold Schoenberg, al fine di riacquisire il dipinto. Strappandolo al Museo Belvedere di Vienna, dov'era custodito per volere della stessa Bloch-Bauer, per poi rivenderlo - a 135 milioni di dollari - al magnate Ronald Lauder, che lo espone alla Neue Galerie di New York. Naturalmente, Maria si è battuta per il valore affettivo di quel ritratto famoso e non per una questione venale, così lascia intendere questo prodotto anglo-americano, finanziato dai fratelli Weinstein.

«Ho scelto il film per via della storia vera e per il criterio di giustizia che la pervade. Il quadro era della Altmann, bella combinazione di elementi caratteriali complessi, quindi era giusto tornasse nelle sue mani», riflette Helen, molto ingioiellata e con un filo di perle al collo davvero regale. Per calarsi nel ruolo, le è bastato attingere alla sua storia familiare: Yelena Mironova, infatti, anglicizzata dal papà Vasilij quando arrivò in Inghilterra (un padre che non ha mai voluto parlare della Russia), proviene da un ceppo perseguitato da Stalin. I Mironov erano facoltosi zaristi, in quel di Kuryanko, ai tempi delle purghe staliniste. Quando il nonno Pyotr Mironov venne espropriato dei suoi beni. «Nel Ventesimo secolo, quando ci sono stati grandi sconvolgimenti, tanta gente ha perso case, terreni, famiglie. È una storia molto comune e, certo, la mia storia di famiglia ha influito sulla mia interpretazione. Anche se diversa da quella di Maria Altmann.

Il ruolo dell'artista, però, è quello di stare sempre dalla parte della società».

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