Cultura e Spettacoli

"I miei 5 giorni in giro con Foster Wallace? Che storia da romanzo"

In "The End of the Tour" (il film che esce domani nelle nostre sale) l'attore impersona l'intervistatore dello scrittore morto nel 2008. "Mi piace interpretare personaggi reali"

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David Foster Wallace, affermato scrittore americano, si uccise nel 2008. La sua morte per suicidio aggiunse mistero ad una figura da molti ritenuta enigmatica e brillante, una delle migliori penne della sua generazione. Lo scrittore di Infinite Jest, di cui proprio quest'anno ricorre il ventennale della pubblicazione, rilasciò una lunga intervista a un collega alle prime armi, David Lipsky, allora firma del mensile Rolling Stone e oggi a sua volta affermato scrittore. I due passarono insieme cinque giorni, in auto, nel lungo viaggio di promozione del romanzo di Wallace. Era il 1996. Quel materiale restò inedito sino alla morte dello scrittore, quando Lipsky decise di riesumare metri e metri di nastro per scrivere un libro: Come diventare se stessi. Ora quel libro è diventato un film, The End of the Tour, diretto da James Ponsoldt e in uscita in Italia domani.Jesse Eisenberg ha lo sguardo timido e la parlata veloce di chi in pubblico non è a proprio agio. Deve essere per questa ragione che si è trovato bene a interpretare David Lipsky, personaggio altrettanto impacciato. David Foster Wallace invece ha il volto di Jason Segel, attore noto per le sue performance comiche.

Che idea si è fatta dei due, Mr. Eisenberg?

«Lipsky era una persona molto sensibile, agli inizi della carriera. Aveva di fronte a sé qualcuno che già ce l'aveva fatta. Provava ammirazione e forse anche un po' di invidia. Non era una persona facile, ma non lo era nemmeno Wallace. In quei cinque giorni parlarono di tutto: letteratura, politica, musica, vita. Non s'incontrarono più dopo quella settimana, però si stabilì un contatto, una sorta di connessione intellettuale».

C'era competitività fra i due?

«Sì, certo. Quella settimana fu caratterizzata da una sorta di irritazione competitiva. Alla morte di Wallace, Lipsky tenne però un toccante discorso alla radio e pubblicò il libro».L'intervista sarebbe dovuta uscire ben prima, su Rolling Stone, ma non successe...«Rolling Stone è un magazine di cultura pop, di musica. Lipsky dovette insistere per passare quei cinque giorni con Wallace. Ottenne un sì ma poi non riuscì a far pubblicare la sua intervista. È successo qualcosa di simile cercando di portare alla luce questo film. La letteratura non è pop».

Non è la prima volta che interpreta un personaggio storico. È stato Mark Zuckerberg in The Social Network e ora è Lipsky. Per lei è più facile o più difficile interpretare un personaggio in carne ed ossa?

«Per me è più facile. Mi piace, credo sia un grande vantaggio interpretare un personaggio reale. Ho incontrato David Lipsky e grazie a quell'incontro sono stato in grado di rubargli certi atteggiamenti, certe qualità della sua persona che poi ho trasferito nel personaggio. La goffaggine sociale ad esempio».

Sembra un personaggio un po' nevrotico.

«Un po' è lui, un po' è l'uso della mia immaginazione. Ho immaginato l'esperienza di un uomo che vorrebbe fare lo scrittore ed è in compagnia di un grande scrittore, che sta sperimentando esattamente ciò a cui lui vorrebbe puntare. Naturale che sia nervoso. Ho usato la mia stessa esperienza, i miei inizi al cinema, per cercare di immaginare cosa succedeva dentro di lui».

Dopo questo film la vedremo nei panni di Lex Luthor, il cattivo di Batman v Superman: Dawn of Justice. Un'esperienza molto diversa.

«Certo, i due film alla fine saranno molto diversi, faranno anche numeri molto diversi, ma il mio lavoro è piuttosto simile e questo è un segno. Quando un film di supereroi è un buon film, il lavoro dell'attore non cambia».

Ancora diverso è poi il suo secondo progetto con Woody Allen, appena finito di girare e ancora senza titolo.

«Sì, la mia prima esperienza con Woody Allen, in To Rome with Love, è stata meravigliosa, ma questa è stata più autentica. A Roma ho avuto la possibilità di conoscere una città meravigliosa, angoli che da turista non avrei mai visto, ma in questo film eravamo a casa».

Infatti sia lei, sia Woody Allen siete di New York.

«Siamo anche entrambi ebrei».

Vorrebbe anche lei cimentarsi con la regia?

«No, non ci ho mai pensato. Io, quando non sono sul set, scrivo sceneggiature per il teatro. In qualche modo, è un lavoro simile a quello del regista.

Il bisogno di controllare le altre persone, di controllare tutto, lo soddisfo scrivendo».

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