Cultura e Spettacoli

Intervista a Federico Moccia: "I miei universitari sono una famiglia"

Il regista presenta la commedia sugli studenti. Tra sopravvivenza e amore

Intervista a Federico Moccia: "I miei universitari sono una famiglia"

Il mondo Moccia non è un mondo cane. Anzi. Vi circola «la vera voce del popolo, che a volte non viene sentita», dice il regista e scrittore Federico Moccia, puntando sugli universitari: ventenni semplici, carini e fuorisede, con l'unico problema di rimediare 250 euro per pagarsi la stanza in affitto condiviso. Al centro del suo film Universitari. Molto più che amici (da giovedì) commedia paravanziniana con attori sconosciuti e qualche nome noto (Maurizio Mattioli e Barbara De Rossi), ora ci sono questi pischelli né carne, né pesce e perciò freschi e digeribilissimi.

Ha girato nei viali dell'università La Sapienza, dove alcuni ragazzi l'hanno contestata. Com'è andata?

«Se fossi stato Nanni Moretti, avrebbero mostrato un altro rispetto, sarebbero stati felici di vederlo girare. Mi spiace, ma la loro contestazione non era fondata: stavo lavorando! Ce l'avevano con i lucchetti, ma è ridicolo. Mi sono messo a parlare con alcuni, invitandoli a guardare oltre».

A che cosa?

«Ai tagli all'istruzione. Alla precarietà. Vorrei che i giovani avessero un panorama più ampio».

Che cosa l'ha spinta ad abbandonare il pianeta adolescente, per esplorare quello dei giovani adulti?

«M'interessava il passaggio all'università. Finito il liceo, il giovane ha la sua libertà, ma non sa come gestirla. Ci vuole una regolamentazione, specie per i fuorisede: fare la spesa, mantenersi. A differenza de I laureati di Pieraccioni, qui c'è più realismo. Ci sono le vite vere degli universitari».

Quale ricordo ha dei suoi anni universitari?

"Ho fatto 16 esami a Legge. Ma la cosa più bella era andare nelle case dei fuorisede: ville con feste incorporate».

I suoi film ad alcuni non piacciono per l'assenza d'impegno.

«Ma i ragazzi non hanno più cose in cui credere! Nei miei film c'è un racconto sui caratteri. Steve Jobs ha abbandonato gli studi universitari, perché aveva una capacità visionaria diversa. Ho capito tutto guardando Santoro».

Guardando Michele Santoro in tv le si è aperto un mondo?

«Guardavo un gruppo di ragazzi, che contestava la politica. Il loro portavoce ha preso la parola e, dopo aver parlato, si è girato verso i suoi e, nel fuorionda, si è sentito che chiedeva: “Come sono andato?”. Non si preoccupava di quanto aveva detto, ma di come appariva».

Nel suo Universitari c'è affinità con i personaggi alla Step di Tre metri sopra il cielo?

«Non c'è quella tipologia: i miei universitari non fanno a botte, non sono bene, appartengono a un'altra Italia, come Sara, casertana educata. Da piccolo giocavo per strada col figlio del benzinaio, oggi i giovani sono soli. E frequentano solo quelli del loro gruppo sociale. È assurdo.

Perciò i miei universitari si creano una famiglia con i coinquilini».

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