Cultura e Spettacoli

"I racconti? Come la vita Scrivi e riscrivi cercando quello perfetto"

L'autore americano pubblica la sua prima raccolta, che al centro ha le relazioni in crisi

"I racconti? Come la vita Scrivi e riscrivi cercando quello perfetto"

Joshua Ferris risponde al telefono da casa sua a Brooklyn. Nato nel '74, Ferris è considerato uno dei giovani talenti della letteratura americana. All'epoca del suo primo romanzo, E poi siamo arrivati alla fine (Neri Pozza 2006), oltre a vincere il Pen/Hemingway Award fu inserito dal New Yorker fra i venti migliori narratori under 40. Dopo altri due romanzi (Non conosco il tuo nome e Svegliamoci pure, ma a un'ora decente) pubblica ora la prima raccolta di racconti, Invito a cena (Neri Pozza, pagg. 256, euro 17, in libreria da giovedì).

Questi undici racconti sono stati scritti nel corso di oltre dieci anni e pubblicati su varie riviste, dal New Yorker a Granta. Come li ha scelti?

«Credo di essermi concentrato soprattutto sulla qualità di ciascuna storia. Se aveva retto al passare del tempo, allora volevo che fosse nella raccolta; altre sono rimaste fuori».

Ha revisionato qualcosa?

«Ne ho riscritto circa la metà. E probabilmente ora come ora potrei riscrivere l'altra metà...».

Addirittura?

«Ho un desiderio di perfezione che mi spinge a scrivere e riscrivere. Ciascun racconto era già stato pubblicato da qualche parte: quindi era stato rivisto da me, dall'editor, dall'agente e dall'editore. Eppure ho fatto ancora molti cambiamenti. La domanda è: c'è un ideale di perfezione oppure muta sempre col tempo, perché io stesso cambio come scrittore?».

C'è?

«Onestamente non ne ho idea. La mia ipotesi è che ogni revisione avvicini all'ideale; ma, come nella vita, c'è sempre qualcosa che ti delude».

Le sue opere precedenti erano tutte romanzi. Che differenza c'è rispetto allo scrivere racconti?

«Probabilmente proprio quella perfezione: la convinzione mitica che si possa scrivere il racconto perfetto. Come la presa perfetta o la caccia perfetta, per usare certe pessime analogie dal tono virile. Un romanzo è più lungo, più lento: non necessita gli stessi requisiti di efficienza del racconto».

Il racconto è più faticoso per il lettore?

«Credo di sì. È come una corsa in salita: quando il meccanismo comincia a funzionare e arriva all'apice, all'improvviso la storia si ferma, e devi ricominciare da capo; mentre in un romanzo vai avanti a correre con il meccanismo. Leggere racconti richiede più concentrazione e più energia, ed è strano, visto che sono più corti. Così funziona, paradossalmente, la forma».

L'argomento di quasi tutti i racconti sono le relazioni: matrimoni in agonia, divorzi, crisi. Perché?

«Non lo so. Credo che quello che sono determini quello che scrivo: le mie preoccupazioni di uomo e di padre, la mia biografia. Ho avuto dei genitori che hanno divorziato molto ed ero perplesso nel vedere la quantità di amore che avevano per altre persone e insieme la loro incapacità di andare d'accordo. Ed è stato così anche per me, da giovane».

Che cosa voleva raccontare?

«Sono stato spinto a scrivere di come si possa gestire una relazione al meglio, senza perdere la propria anima. Alcuni lo fanno, altri ce la mettono tutta per contenere le loro nevrosi, le insicurezze e le mostruosità e rapportarsi con l'altro».

Emergono frustrazioni, ossessioni, solitudini, incomprensioni. C'è un'ansia, una tensione sottostante a tutti i racconti?

«Probabilmente sì. Tutta la buona narrativa ti fa sentire qualcosa. A volte è l'ansia, a volte è un momento di rivelazione su come si può condurre la propria vita, come ne La brezza. Ma questi momenti di scoperta e di svolta devono essere sempre sentiti emotivamente dal lettore».

La brezza parla anche dell'incomunicabilità nelle relazioni.

«Sì. La comunicazione con l'altro è difficile. Ma può essere anche molto semplice, per esempio attraverso l'esperienza naturale di una brezza».

Rappresenta la metropolitana di New York come l'inferno. Non le piace?

«Ci sono stato anche l'altro giorno. Mi piace, è il luogo più democratico del mondo: lì passa ogni singola persona di New York. Però in una storia, Una serata fuori, l'ho dipinta come l'inferno, perché lì volevo mettere il protagonista, un uomo orribile».

Perché gli uomini che compaiono nelle sue storie sono tutti così terribili?

«Non lo so, potrei fare una lista di uomini orribili, da Trump in poi. Credo che la maggior parte degli uomini sia orribile, specialmente quelli che credono di non esserlo».

E l'umorismo?

«Aiuta a fare inghiottire la medicina. Ci sono storie che fanno riflettere, è tutto un po' orribile, ma ti farò ridere...».

Nei romanzi e nei racconti scrive spesso di lavoro. Perché?

«Nella ricerca del significato della vita, il lavoro ha un ruolo forte. Soprattutto in America è importantissimo: non stacchiamo mai. Perché?».

Ha una risposta?

«Non è solo una questione di soldi o di sopravvivenza. Sembriamo ossessionati. È qualcosa che riguarda il significato che diamo alle nostre vite e come definiamo noi stessi, come valutiamo noi e gli altri».

Perché in alcuni racconti, come Invito a cena, il finale rimane irrisolto?

«Perché è un po' come nelle fiabe dei fratelli Grimm: uno schema che si ripete. Le azioni forti della nostra vita raramente avvengono in modo immediato e definitivo; piuttosto ci arriviamo attraverso modelli di comportamento ripetuti. Amy, la protagonista, è imbrigliata in questa fiaba, che è un incubo: perciò non può lasciare definitivamente il marito».

È vero che sua moglie, la scrittrice Eliza Kennedy, è la sua critica più severa?

«Sotto tutti gli aspetti».

Intendevo dei suoi libri.

«Solo i libri... D'accordo. È la mia prima lettrice, quindi mi fido molto. Cerca di essere gentile: è una lettrice amorevole e generosa».

Nel suo primo romanzo il narratore era un inusuale «noi», nei racconti varia tra la prima e la terza persona. Che cosa significa?

«I diversi punti di vista narrativi dipendono da ragioni emotive e retoriche, e dal messaggio che affido ai personaggi. Siccome ciascuno di loro è diverso, ogni storia è narrata in modo diverso. Per esempio, in Una serata fuori non avrei mai usato la prima persona per quell'uomo, perché è un modo per esprimere empatia».

Qual è il ruolo dello scrittore?

«Il primo obbligo è di verità, verso te stesso: devi esprimere il mondo come lo vedi, capire quello che hai da offrire alla pagina e al mondo. Devi dimenticare il lettore, le sue opinioni, la sua soddisfazione; però allo stesso tempo devi averlo in mente, perché al lettore sono dovuti grande rispetto e considerazione. Ed è questo che rende la relazione importante».

Sembra complicato.

«Un vero paradosso. Sicuramente è una cosa difficile».

E in questo rispetto per il lettore, che cosa è più importante?

«Il piacere.

Dare piacere al lettore».

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