Cultura e Spettacoli

I silenzi di Beckett e il «no» di Pound I grandi della cultura visti da Arbasino

Lo zibaldone dell'autore di «Fratelli d'Italia» è vera critica. E vera scrittura

Stefania Vitulli

Una faccia. «Rivedo la sua faccia e quella analoga di Ezra Pound, con le rughe emaciate fra i lineamenti cadenti, le mani smunte, gli occhi spettrali, i silenzi cadaverici..». Dai tratti di quella faccia, i segni di una vita: «Col senno clinico del poi, qualunque psicoterapeuta saprebbe oggi diagnosticare la loro classica depressione, con la facies tipica, i sintomi divulgati nei vari supplementi medici, e gli psicofarmaci indicati per far passare la sindrome». Dalle ombre di quella vita, le luci di un'arte complicata: «Quando però dirigeva una sua commedia, Beckett diventava animatissimo su e giù dal palcoscenico tra gli attori. A una prova londinese del Godot, aveva concesso al direttore dei Riverside Studios di farmi sedere accanto a lui, a patto che non dicessi una parola». E poi il gran finale, dall'arte al guizzo, del ricordo, l'incontro con l'osservatore da cui nessuno dei ritratti esce incolume: «Alla fine lo salutai a bocca chiusa. Rispose gentilmente: Thank you. (A Pound invece mi permisi di fare una domanda, giacché ridacchiava mentre stavo dicendo delle sciocchezze. Tranquillamente bofonchiò: No)».

Così, prendendo ad esempio l'incipit del portrait di Beckett, si può riassumere la struttura di Ritratti e immagini, l'ultima collezione di scritti firmata Alberto Arbasino (Adelphi, pagg. 353, euro 23). Bernard Berenson, Aldous Huxley, D.H. Lawrence, Alan Bennett, Ingmar Bergman, Christopher Isherwood o Robert Mapplethorpe sono descritti a dimostrare, inequivocabilmente, che Arbasino c'era. Con gusto. E ai ritratti si mescolano magistrali «trascritture» di opere musicali e teatrali come il Barbablù di Béla Bartók o il primo Marat-Sade di Peter Brook, da decodificare Palazzeschi alla mano: «Sempre quarant'anni fa, i matti alla Artaud venivano avanti cantando Fornication and copulation, e tutti noi beati all'Aldwych Theatre. Ma riflettendo sugli Universali e i nominalismi e i pompini, allora Palazzeschi spiegava, paziente: Al tempo dei telefoni bianchi, non esisteva la parola omosessualità. E dunque, non esistendo il nome, non esisteva neanche la cosa. Quindi, se si baciava un moschettiere in divisa, in carrozzella, al Tritone, tutt'al più la gente diceva: Che bravo signore alla mano! Sarà certo il figlio di un suo giardiniere».

Gran parte del fascino di un ritratto tuttavia è la capacità di cogliere quel che tutti vediamo ma non sappiamo di conoscere finché il ritratto, appunto, non ce lo fa ri-conoscere. E una volta che si procede nella lettura di questo Arbasino, i riconoscimenti si moltiplicano a tal punto che, anche se la maggior parte dei lettori non ha mai visto di persona i giganti di cui si parla, gli sembra di averli avuti come compagni di treno per un viaggio molto lungo. Perché i ritratti di Arbasino catturano anche per quel che solo lui pare aver intravisto e intrasentito: «Barthes venne poi naturalmente a pranzo con noi: c'erano i Feltrinelli, gli Scalfari... Il giorno dopo, acceso dibattito: con Luciano Anceschi, Ezio Raimondi, Valentino Bucchi, e naturalmente Barthes. Lesse una sua pagina. E i più contestatori: ah, averlo saputo in tempo..». Così racconta a proposito del contestato epilogo di una Carmen di cui la committenza chiedeva di «eliminare l'aura da veglione folkloristico abituale». A questo scopo di filologica, logica e semiotica consulenza s'invita Barthes a pranzo, nel 1967, al Cantuzein, di fronte al Comunale di Bologna e il risultato sono: «Miti, riti, voci, fruscii, brusii, mormorii, granulomi... Più tardi, leggendo in Incidents gli elogi di Barthes sul Palace per Vogue, si è capito che nei cinema e cessi di movimento bolognese aveva trovato di che leccarsi i barbigi».

Conseguenze gradevoli di un soggiorno italiano, come quelle che Arbasino tratteggia per un altro gigante, l'autore di Colazione da Tiffany: «Ricordo un lungo e piacevole house-party con Gianni e Marella Agnelli che affittavano a Maiorca una baia con ville e padiglioni. E c'erano appunto Truman Capote e il suo amico, e Audrey Hepburn col marito Andrea Dotti, e vari amici e Brandolini nazionali e internazionali. Insomma, tutti. In fine di serata noi giovani si giocava a tirar fuori il proprio ideale erotico segreto. Per i più: testare il proprio charme fisico in spiagge e locali dove nessuno ti conosce. Ma per Truman: chiudersi in un faro isolato col suo prediletto (che era lì, e non pareva ideale a nessuno)».

Chiose che portano dal ritratto al capolavoro, sì, ma che soprattutto giovano alla nostra prospettiva critica sul prossimo, ormai lessata dal politically correct.

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