Cultura e Spettacoli

John Belushi, trent'anni fa l’ultima folle notte del comico

Trent’anni fa moriva l’attore di Blues Brothers: un treno lanciato in corsa verso l’autodistruzione

John Belushi, trent'anni fa l’ultima folle notte del comico

Autodistruttivo, talentuoso, ribelle. Innamorato della musica, bluesman improvvisato ma, per come si trasformò in un divo imprigionato dalla popolarità, perfino rockstar. La rockstar dei comici. E proprio come una stella del rock, John Belushi uscì dalla porta di servizio della vita, varcando da cadavere l’uscita principale di un hotel, il Chateau Marmont di Los Angeles, il 5 marzo 1982. Sono dunque passati trent’anni dalla tragica scomparsa dell’ex stella del Saturday Night Live - il programma di culto della tv Usa, culla di generazioni di attori comici come Chevy Chase, Dan Aykroyd, Bill Murray fino ai più recenti Adam Sandler e Ben Stiller - nonché mattatore anarchico in commedie come Animal House e Chiamami Aquila, infine irresistibile Blues Brother «in missione per conto di Dio». Con quel Dio, in effetti, Belushi sembrava avere una questione aperta, se è vero ciò che si dice del suo ultimo scambio con il medico di fiducia. A questi che gli chiedeva, vedendolo ormai in balia della tossicodipendenza, «perché si sta uccidendo?», l’attore rispondeva: «Tutta la mia vita è preordinata da altri, io devo solo esserci». Una passività da predestinato, che sembrava smentire il suo vulcanico egotismo sul palcoscenico. «La scena - era una delle battute meno comiche e più amare che Belushi amava ripetere - è il solo posto dove sono consapevole di quello che sto facendo». Per il resto, la vita di John Belushi fu un frenetico procedere verso quella maledetta notte tra il 4 e il 5 marzo 1982 quando - lo scrive meglio di tutti Bob Woodward nel suo besteller Chi tocca muore - La breve vita di John Belushi, Sperling & Kupfer - l’attore morì in circostanze misteriose. A tal punto misteriose da solleticare proprio l’interesse di Woodward, mitica firma del Washington Post che con Carl Bernstein anni prima aveva scoperchiato lo scandalo Watergate. Molti fan di Belushi infatti darebbero metà del proprio patrimonio per poter guardare dall’alto, come in un incessante piano sequenza alla Robert Altman, le ultime ore di vita del loro idolo. Anzi, a dire il vero l’intera ultima settimana che Belushi passò, in un vortice di party, alcol, droga e notti insonni nella zona del Sunset Boulevard di Los Angeles, nel dedalo di locali come il Central, il Rainbow e il Roxy, e camere d’albergo senza storia. Che poi tutto succedesse sul mitico Viale del Tramonto consacrato dal celebre film di Billy Wilder è solo un beffardo gioco di parole del destino. Sembra che tra le ultime persone incontrate tra bevute, discussioni (anche a un tavolo con un gruppo di... Cristiani Rinati!) e risate da Belushi ci fossero illustri amici come Robert De Niro e Robin Williams (i cui agenti successivamente si affannarono a spiegare che, nelle ultime tragiche ore, i loro assistiti erano ben lontani dal fattaccio), nonché la cantante Cathy Evelyn Smith, figura di secondo piano del sottobosco divistico losangelino, nonché «groupie» dei Rolling Stones, malamente cacciata tempo addietro dalla loro corte. La Smith, appurarono le indagini, fu probabilmente l’ultima a vedere Belushi vivo. O forse morto. Dal momento che la donna uscì dalla sua camera d’albergo, dove il comico giaceva incosciente, portandosi appresso la siringa e il cucchiaio con cui, probabilmente, gli aveva somministrato una dose di droga. La dose letale o una delle tante? Il dubbio rimase, ed ecco perché la Smith evitò l’accusa di omicidio. Tra le varie supposizioni intorno alla vorticosa ultima settimana di vita di John Bleushi c’è anche quella che il comico fosse depresso per la decisione della Paramount di rifiutare una sua sceneggiatura per una commedia dal titolo Noble Rot. Non che la Paramount lo avesse lasciato a piedi. La controproposta della major tintinnava di soldi: 12 milioni di dollari per quattro film da girare nei due anni successivi. Ma l’ego di Belushi era quello che era. Comunque, la vita di John Belushi non fu solo questa, ma anche quella - luminosa - della propria carriera, che divertì il pubblico prima americano e poi di tutto il mondo. Una carriera che il paffuto John Adam Belushi nato a Chicago il 24 gennaio 1949, figlio di un immigrato albanese cresciuto nel quartiere di Humboldt Park, appassionato batterista, seppe costruirsi a colpi di talento. Tutto cambiò nel 1975, quando Belushi approdò al palcoscenico catodico del Saturday Night Live, travolgendo col suo anticonformismo la scena televisiva Usa. Qui si consolida la sua amicizia con Dan Aykroyd (che lo inizia al blues e col quale formerà i Blues Brothers, protagonisti di sketch al Saturday Night e del cult-movie di John Landis del 1980) e l’acerrima rivalità con Chavy Chase, del quale soffrirà sempre i trionfi, soprattutto quello del 1976, quando Chase conquista l’Emmy Award come «migliore attore» del Saturday Night Live. Nel 1979, all’apice della sua fama e dopo interminabili litigi con l’autore e produttore dello show Lorne Michales, Belushi lascia il programma. Più tardi, il comico dichiarò di aver sempre detestato alcuni suoi personaggi: ad esempio, odiava vestirsi da ape gigante, o travestirsi da donna. Ma sapeva che il pubblico li amava. «I miei personaggi - spiegava - dicono che va bene essere incasinati. La gente non deve necessariamente essere perfetta. Non deve seguire le regole. Può divertirsi. La maggior parte dei film di oggi fa sentire la gente inadeguata. Io no». Ecco perché non lo mollarono mai. La gente gli rimase sempre alle costole.

Un po’ come quell’esercito di poliziotti, nell'interminabile inseguimento dei Blues Brothers.

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