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L'accordo Lama-Agnelli rovinò la nostra economia

Nel 1975 i sindacati misero sotto scacco le imprese e la Dc nicchiò. Paghiamo ancora le conseguenze

L'accordo Lama-Agnelli rovinò la nostra economia

Il 15 agosto 1971 Richard Nixon chiuse l'era aperta nell'estate del 1944 a Bretton Woods, località montana del New Hampshire dove i paesi industrializzati avevano fissato le regole della politica monetaria internazionale: il dollaro cessava di essere l'unica moneta ammessa alla convertibilità con l'oro. L'effetto speculativo fu devastante. Quel Ferragosto fui incaricato di realizzare un servizio sulle reazioni dei turisti americani a Roma: davanti alla filiale dell'American Express, in piazza di Spagna, filmai una fila di persone con l'espressione corrucciata, o addirittura in lacrime, in attesa di prelevare dollari. Il cambio ufficiale era di 625 lire, ma i commercianti romani lo pagavano 500.

Sul momento sembrò che la lira non dovesse risentire di questa rivoluzione. Ci sbagliavamo. Nel giro di tre anni la nostra moneta fu svalutata del 12 per cento sul dollaro e del 30 sul marco tedesco. E si verificò un paradosso perverso.

La gente stava bene, perché beneficiava dei forti aumenti salariali conquistati alla fine degli anni Sessanta, perciò spendeva. E siccome le famiglie avevano ormai acquistato tutti gli elettrodomestici e le automobili ragionevolmente desiderabili, cominciarono a sostituirli. Tuttavia, benché continuasse a tirare, la domanda non era più forte come nel decennio precedente. La lira svalutata favoriva le esportazioni, ma penalizzava le importazioni di materie prime. I prezzi, quindi, aumentarono e, con essi, l'inflazione.

Il cane si morse la coda. Vista la crescita del costo della vita, i sindacati dimenticarono i recenti aumenti salariali e ne chiesero altri. Si arrivò così allo storico accordo del gennaio 1975 fra il presidente di Confindustria, Gianni Agnelli, e la delegazione unitaria dei tre sindacati confederali guidata politicamente da Luciano Lama, segretario generale della Cgil. Agnelli e Lama erano entrambi personaggi carismatici, ma il secondo era più forte del primo.

Dal 1975 ho incontrato l'Avvocato una volta all'anno fino al 1999, al Centenario della Fiat, quattro anni prima che morisse.

Parlava con elegante semplicità, ed era ironico, malizioso, curiosissimo di tutto e di tutti. Più che rispondere, domandava. Non amava commentare il passato, era sempre proiettato nel futuro. Lo trovai cambiato nel 1996, il giorno in cui diventò presidente onorario della Fiat, lasciando la presidenza operativa a Cesare Romiti. Sentiva che stava finendo un ciclo. Inevitabilmente, il discorso cadde sulla successione. Per me fu molto difficile non fare il nome del figlio Edoardo, che si sarebbe suicidato quattro anni dopo.

Agnelli mi parlò con grande affetto di Giovannino, il figlio di Umberto: era lui l'erede designato (sarebbe morto l'anno successivo a soli 33 anni).

Luciano Lama trasmetteva autorevolezza a ogni tirata di pipa. Aveva sempre la testa leggermente rivolta all'indietro, e se non la portava «come il Santissimo in processione», come disse qualcuno di Eugenio Scalfari (secondo quanto riferito da Carlo Caracciolo), poco ci mancava. Eppure era tutt'altro che scostante. Fausto Bertinotti mi ha raccontato che, con un pugno sul tavolo e un «l'ho detto io», mise a tacere in un'assemblea sindacale ogni tentativo di obiezione a una scelta controversa. Da vero sindacalista intelligente, capì che la corda tesa con l'accordo del 1975 rischiava di spezzarsi e, con un'inflazione al 20 per cento, nessun aumento salariale avrebbe potuto reggere a lungo. La «svolta dell'Eur», del febbraio 1978, lo portò a invertire la marcia.

In quell'occasione gli feci una bella intervista, ma erano i primi tempi in cui si usavano le telecamere portatili al posto delle vecchie cineprese, e il nastro magnetico non registrò nulla. Mi precipitai di nuovo all'Eur, lui accettò di replicare, ma la nuova versione non eguagliò la prima. Lama era amatissimo dal popolo comunista, forse troppo perché il sinedrio di Botteghe Oscure lo eleggesse alla morte di Berlinguer. Peccato. Definirlo un renziano ante litteram, come ha detto qualcuno, è forse uno sproposito, ma certo, con lui, la sinistra avrebbe imboccato la strada del riformismo molto prima.

Alla metà degli anni Settanta, mentre il Pci di Enrico Berlinguer era al massimo del consenso (nel giugno 1975 avrebbe conquistato i sindaci di molte importanti città italiane), i sindacati avevano approfittato della debolezza della politica e in particolare della Dc per assumere un vero ruolo di leadership nel Paese. Al tempo stesso, per la Fiat era finito il ventennio d'oro. Non solo l'azienda torinese versava in enormi difficoltà finanziarie (nel 1976 sarebbe stata costretta a vendere alla Libia di Gheddafi una quota azionaria del 9,5 per cento), ma i suoi quadri dirigenti erano costantemente nel mirino del terrorismo e intere aree di Mirafiori, e non solo, erano sotto il controllo dei fiancheggiatori delle Brigate rosse. In uno dei nostri incontri di quegli anni, l'Avvocato mi disse apertamente che avrebbe visto con favore un sistema di cogestione dell'azienda con i sindacati, secondo l'uso tedesco. E qualcuno giunse al punto di ventilare l'ipotesi di una nazionalizzazione della Fiat, la stessa idea che aveva avuto a suo tempo Mussolini. Intanto l'immagine internazionale dell'Italia era in caduta libera.

Nel 1977 ne fu l'emblema la provocatoria copertina della più autorevole rivista tedesca, Der Spiegel, che raffigurava una rivoltella posta in bella mostra su un piatto di spaghetti: l'Italia veniva dipinta come un paese di delinquenti e di mafiosi.

In questo quadro, l'accordo Agnelli-Lama sul punto unico di contingenza fu la resa della politica e dell'impresa al potere sindacale, con conseguenze devastanti per l'economia nazionale.

Il protocollo prevedeva l'adeguamento automatico dei salari all'aumento del costo della vita in misura inversamente proporzionale al reddito.

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