Cultura e Spettacoli

Lafcadio Hearn, lo straniero che illuminò i lati più oscuri delle "Ombre giapponesi"

Divinità maligne, animali umanizzati, spettri: le radici dell'orrore nipponico

Lafcadio Hearn, lo straniero che illuminò i lati più oscuri delle "Ombre giapponesi"

Niente geisha, né ikebana, né origami. Niente haiku, né sushi, né sakè. Niente Giappone «pop», insomma, di quello che troviamo declinato in mille forme nel sincretismo della cultura di consumo. Ma nemmeno ronin, né tao, né zen. Cioè niente di quel Giappone che potremmo definire, accidentalmente e occidentalmente, «rock», cioè per molti ma non per tutti, ecumenicamente elitario, e spesso volgarizzato in una divulgazione anch'essa commerciale.

Nel Giappone di Lafcadio Hearn (1850-1904) non troviamo nulla di tutto ciò. Si dirà: ovvio, visto che è morto oltre un secolo fa, quando ancora quel Paese non aveva conosciuto la pervasività dell'altro mondo, né tanto meno incorporato, con innesti non privi di gravi crisi di rigetto, i suoi valori. Tuttavia ovvio non è. Da straniero (e che straniero: nato in Grecia da una greca e da un irlandese, poi abbondantemente americanizzato con tanto di moglie africana, quindi corrispondente nelle Indie Occidentali per il Times Democrat di New Orleans...) e da giornalista passato ad altra destinazione, Hearn avrebbe potuto fare ciò che fanno quasi tutti: crogiolarsi nell'esotismo, assaporare il gusto speziato di una vita scandita dal formalismo delle cerimonie, e darcene conto con il piglio dell'etnologo e/o del poeta. Fare, per capirci, come fece, pochi anni dopo la dipartita di Hearn, il francese Victor Segalen con la Cina in René Leys. L'incanto della Città Proibita. Invece no. A quarant'anni, grazie a Basil Hall Chamberlain, docente all'Università Imperiale di Tokyo, si costruì una bella carriera di insegnante, sposò una donna proveniente da una famiglia di samurai, ne ebbe quattro figli e fu naturalizzato giapponese, assumendo il nome di Koizumi Yakumo.

Forse diventare giapponese era scritto nel suo karma, o se vogliamo nel suo Dna. O forse, più prosaicamente, nel Sol Levante trovò i modi e le forme per sollevare la propria vita randagia e appoggiarla in un posto sicuro e confacente al suo carattere di avventuroso sedentario. In Ombre giapponesi (Adelphi, pagg. 302, euro 15, a cura di Ottavio Fatica) leggiamo i frutti di questo felice approdo. La silloge di ben 39 racconti tratti dalle numerose opere del periodo giapponese di Hearn è molto più di una serie di bozzetti o di tranche de vie destinati ai lettori lontani, quelli occidentali. Semmai potremmo vedervi un collegamento carsico con un'altra antologia a noi più vicina, il secentesco Cunto de li cunti del napoletano Giambattista Basile. Qui sondiamo lo strato più profondo del nipponico folklore, intendendo il termine nel senso più elevato: il sapere (e soprattutto il non sapere, il vasto territorio dell'inconoscibile...) popolare, fatto di divinità cattive e di incarnazioni crudeli, di destini subiti con dignità o contro i quali si lotta, ma sempre invano, di amori che durano oltre le «sette esistenze», di animali umani e di umani bestiali e mostruosi. Alcune storie sono poi più agghiaccianti di certi recenti film dell'orrore «made in Japan», tipo Ju-on: Rancore o The Ring.

A testimonianza di come le paure moderne abbiano sempre radici ancestrali.

E di come le Ombre giapponesi manifestino e insieme nascondano, con il ritmo fluttuante tipico di quelle latitudini, il mistero di una civiltà per molti versi ancora inesplorata.

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