Cultura e Spettacoli

L'atelier del maestro Godard si trasferisce a Milano

Il laboratorio creativo del padre della «Nouvelle Vague» ora è alla Fondazione Prada: film, libri, quadri e oggetti...

L'atelier del maestro Godard si trasferisce  a Milano

Jean-Luc Godard è un fantasma nel cinema d'Europa, ammesso che abbia ancora senso parlare di cinema e non piuttosto di qualcosa che gli pre-esiste affondando le radici nell'arte, nella pittura, nella parola. Più corretto dire allora Histoire(s) du cinema, un lavoro durato dieci anni, dal 1988 al 1998, tra le riflessioni più profonde sul significato della più giovane tra le arti eppure profondamente modificatasi, forse consumatasi, in poco più di un secolo.

Jean-Luc Godard è un fantasma di 87 anni che vive pressoché recluso in Svizzera, rifugge gli incontri, gli omaggi, le uscite pubbliche. Lui non c'è ma ci sono i suoi oggetti: la poltrona di pelle, il tavolo di lavoro, il cappotto, la sciarpa, il cappello attaccati all'appendiabiti come un'installazione di Kounellis. I suoi libri, il ritratto di Kafka, la racchetta da tennis, la riproduzione di un dipinto di Rembrandt, fotografie scattate dallo schermo televisivo come appunti di memoria. E solo due manifesti di film, L'avventura di Michelangelo Antonioni e Jour de fête di Jacques Tati. Parlandone con Sergio Toffetti, storico del cinema, mi sottolinea l'importanza dell'inventore di Mr. Hulot per uno degli autori più indecifrabili del '900, che non esclude affatto il registro comico grottesco nei suoi film, dove lo ritroviamo muoversi impacciato come uno zio non proprio a posto. «L'unico che ho avuto il terrore di intervistare - mi dice Toffetti - Godard, un fottuto genio».

Basterà attendere domani e questa assenza verrà parzialmente colmata, quando Le studio d'Orphée arricchirà la collezione permanente della Fondazione Prada in viale Isarco a Milano. Un inseguimento durato anni per convincere il regista - che ha inventato la Nouvelle Vague e poi intorno al '68 l'ha dichiarata finita - a trasferire il suo atelier a Milano. Chambre d'artiste? Installazione? Luogo della memoria (cinematografica)? Non è importante la definizione quanto considerare che attraverso questi oggetti, queste suppellettili, dettagli della biografia di un uomo anziano o forse senza tempo, sono nati i lavori filmici dell'ultimo Godard, per chi non lo conosce bene lontano parente dell'autore di À bout de souffle, Une femme est une femme, Prénom Carmen e Je vous salue, Marie. Fiction e narrativa non esistono più, è un film-maker sperimentale, che lavora completamente in post-produzione, senza un solo minuto di girato, utilizzando l'inesauribile archivio di immagini come pretesto e strumento per la sua teoria a proposito del cinema. Formalmente lontano dalla bassa fedeltà del cinema d'artista, ogni singolo fotogramma risulta di qualità eccelsa così come l'impaginazione grafica e lo spazio riservato alla lingua, scritta o parlata. E i cinephiles riconosceranno la sua di voce e quella della moglie Anne-Marie Miéville. Che ci sia un'abbondante dose di casualità in tutte queste associazioni è Godard stesso a rivelarlo, in uno dei suoi numerosi aforismi: «Io improvviso, forse, ma con dei materiali che risalgono a parecchio tempo fa. Si raccolgono per anni mucchi di cose, e le si mettono tutt'a un tratto in ciò che si fa».

Dentro Le studio d'Orphée è piazzata una grande televisione - fino a un certo punto Godard la odiava, poi ha capito che il cinema prima o poi sarebbe transitato da lì - che trasmette l'ultima fase della sua ricerca, il lungometraggio Le Livre d'image, concepito proprio in questo atelier, e nove cortometraggi prodotti tra gli anni '80 e il 2008. Accompagna la salita nell'ascensore della Torre Accent-sur, la colonna sonora di Histoire(s) du cinéma, formata da estratti di film, di telegiornali, di scritti di filosofia, di romanzi, di poesie, di musiche e di arte.

Le storie del cinema secondo Godard.

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