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Leggere Bonnefoy per riscoprire Baudelaire

In una raccolta postuma lo scrittore ci restituisce tutta la grandezza dell'autore di «I fiori del male»

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Leggere Bonnefoy per riscoprire Baudelaire

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Davide Brullo

Con la spada in mano, come un cavaliere jedi, Yves Bonnefoy (1923-2016), il maestro Yoda della poesia occidentale, ritorna tra noi poveri viventi a due mesi dalla morte. Non si tratta di sciacallaggio editoriale, sia chiaro, perché l'ultimo libro stampato in Italia del grande poeta francese, per merito di Moretti & Vitali, pur griffato luglio 2016, conserva, nella nota biografica, solo la data di nascita dell'autore, il 1923. Il secolo di Baudelaire (dal titolo di un lampeggiante articolo del 2013; pagg.236, 18 euro) si può leggere in due modi. Quello più docile è ritenerlo un notevole libro di saggi, in cui il divin poeta si occupa dei suoi colleghi ottocenteschi, Stéphane Mallarmé, Jules Laforgue, Hugo von Hofmannsthal e, appunto, Baudelaire. Ennesimo tassello dell'importante opera saggistica del geniale poeta, che ha scritto, in particolare, su Rimbaud, su Leopardi, su Alberto Giacometti, sul barocco italiano, sull'Ariosto e, pure, su Baudelaire, nel 2000, in un quaderno edito dalla Bibliothèque Nationale de France.

In realtà, questo ultimo libro, testamentario nonostante il suo autore, va letto come un atto di guerra. Il casus belli, in questo testo, è una considerazione di principio: «il XIX secolo è stato», scrive Bonnefoy, «non solo il secolo di Marx o di Nietzsche e già quasi di Freud, ma quello dell'autore de I fiori del male». Perché Baudelaire, di cui l'anno prossimo scoccano i 150 dalla nascita, sarebbe così decisivo?

Perché il divino Charles è il primo poeta a considerare, senza reflui romantici, come un dato di fatto, la morte di Dio e il macello degli dèi tutti. Ma nello stesso tempo preserva la trascendenza, perché «un infimo tozzo di pane, la più piccola nuvola in cielo sono comunque eucaristici». La guerra comincia qui. La parola di Baudelaire (che sarà anche quella di Rimbaud e di Thomas S. Eliot) si sporge «fin dentro l'oscurità della psiche, là dove l'intricata morale vigente, di natura concettuale, vota l'esistenza alienata ad aporie, a conflitti senza sbocco».

La guerra è tra la parola poetica e le parole correnti, «tenute sotto controllo», «sottomesse al compito di coordinare, analizzare, significare». Ma la poesia «cerca, con un uso diverso delle parole, ritmato, musicale, di liberare i vocaboli fondamentali della lingua dalla loro confisca da parte del concetto», in una lotta estrema che va anche contro l'arte commerciale della prosa e del romanzo (per Bonnefoy non ci sono mezze misure, «la poesia si distingue dalla letteratura come il desiderio di essere si distingue dalla gestione dell'avere. Non cerca significazioni, ma senso, il senso che c'è a vivere»), e fa del poeta una creatura bandita, incompresa, un disadattato esploratore dei regni oscuri. Il poeta compie una catabasi nella grammatica («Se dei deboli si mettessero a pensare sulla prima lettera dell'alfabeto, rovinerebbero subito nella pazzia!», insegna Rimbaud), facendo sgorgare tracce di aldilà nell'aldiqua.

«La poesia è un compito che non può mai essere concluso», ci avverte il Bonnefoy dal regno dei morti: la poesia prepara l'attesa degli dèi.

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