Cultura e Spettacoli

"La lezione civile del barbaro Attila"

Il regista Livermore spiega la sua idea dell'opera di Verdi

"La lezione civile del barbaro Attila"

Ha un viso d'angelo e modi gentili Saioa Hernández, ma nel ruolo di Odabella si trasformerà in una tigre. Attraverserà le due ore e 20 minuti di spettacolo con un'idea in testa e una bandiera in tasca. Vuole ammazzare Attila, il capo degli Unni, perché le ha distrutto l'intera famiglia. Alla fine riuscirà nel suo intento regalando una rarità nella lirica: un maschicidio. «Sarò soddisfatta nell'uccidere Attila così come godrò nel vederlo torturare» aggiunge il soprano di Madrid, assieme a Ildar Abdrazakov (nel ruolo del titolo), protagonista dell'opera che il 7 dicembre apre la stagione della Scala. Abdrazakov, Hernández, Fabio Sartori (Foresto) e George Petean (Ezio) compongono il quartetto chiave di Attila, opera in un prologo e 3 atti di Giuseppe Verdi. Assieme a Giovanna d'Arco, prescelta per la prima della Scala del 2015, e a Macbeth, in calendario prossimamente, Attila completa il percorso del giovane Verdi tracciato da Riccardo Chailly.

Conditio sine qua non per la scelta del titolo: avere un Attila straordinario. E si è individuato nel russo Abdrazakov, basso. Secondo step: ingaggiare Odabella, l'unica donna protagonista. Deve essere un soprano drammatico capace di sciogliere il cuore di Attila, quindi sinuosa, ma carica di dinamite, gelida calcolatrice in anticipo su Lady Macbeth. Mesi fa arrivò voce di un soprano da tener d'occhio, tale Hernández. Audizione, promozione e scrittura: in marzo. Da allora è cambiata la vita della signora, catapultata su un palcoscenico importante, con un ruolo impervio, ma sorretta da una dichiarazione d'autore. Anzi d'autrice: Montserrat Caballé, la denifinì «la più bella voce del mondo».

È già passato ai raggi x lo spettacolo consegnato dal regista Davide Livermore e scene di Giò Forma. Archiviate «corna e pelliccia di montone» che fan tanto invasioni barbariche, Livermore ha spostato la vicenda in un Novecento distopico, anni Quaranta, cupo, orrendo, con gran dispiego di fucili e pistole. Un clima a metà fra Riccardo III di Ian McKellen e La caduta degli Dei di Visconti, spiegano dalla regia e costumi (di Gianluca Falaschi). Decadentismo alla Visconti nella scena di baccanale, la più ritoccata di questa produzione (era prevista una statua della Madonna andata in frantumi e momenti lascivi: via tutto). Non vi sarà nulla di orgiastico in questo terzo atto, semmai la narrazione di una umanità destinata alla dissoluzione morale, all'autodistruzione, è la non-vita delle terre d'occupazione. L'opera veniva battezzata nel 1846, a due anni dalla Prima Guerra d'Indipendenza. Le vicende, secondo il libretto e la storia, risalgono al 452. L'impero romano è a un passo dal crollo finale (nel 476 d.C.), il generale Ezio offre l'universo a Attila purché a lui rimanga Roma. Politica mercantile da cui è partita la lettura di Livermore, «Ezio è disposto a svendere un popolo per assumere un potere personale... Attila non accetta e dà una lezione. Questa non è provocazione del regista. Con Verdi bisogna essere al suo servizio, per quanto uno voglia essere provocatore, vince sempre Verdi» (Livermore). E come insegna ogni prima della Scala che si rispetti, l'allestimento sta già facendo parlare parecchio di sé, al punto d'aver comportato alcuni cambi in corso d'opera. «Le cose vengono viste, giudicate e anche rinnegate. Così nasce un nuovo allestimento» chiosa Chailly.

Che assicura l'assoluta sintonia fra podio e palcoscenico.

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