Cultura e Spettacoli

Il libro che piace all'editoria? Incolore, insapore, indolore

Il filologo Lorenzo Tomasin al Campiello: «La lingua della letteratura è ormai un italiano standard, senza forza»

Il libro che piace all'editoria? Incolore, insapore, indolore

di Lorenzo Tomasin

A noi Letterati della giuria, appena scampati alla vertigine prodotta dalla calata sui nostri scrittoî di centinaia di oggetti di lettura, non spetta certo il compito di tracciare un vero bilancio storiografico. Esso compete piuttosto a critici che non si trovino, come noi ora, in istato d'assedio letterario. Il consuntivo odierno vale dunque più come un dispaccio dal fronte che come il resoconto o commentario di una campagna vittoriosamente conclusa.

Intendiamoci: la Selezione cui s'intitola il nostro compito comporta forse altre difficoltà da quelle che si potrebbero supporre da fuori. Il vero problema, intanto, non mi pare sia quello della grande scrematura, cui tra l'altro l'abitudine di molti di noi alla lettura continua e professionale e devo dirlo un buon lavoro di squadra offrono efficaci soluzioni.

Altri dilemmi, in effetti, si parano avanti a chi sia costretto da un dovere d'ufficio ad affrontare la debordante quantità del prodotto. L'accesso universale all'alfabetizzazione è stato malinteso purtroppo, non solo in Italia, come lasciapassare indiscriminato alla creazione scritta, cosicché la dubbia qualità che ne caratterizza la più parte, rende vie più arduo l'obbligo di una scelta.

Non solo non è semplice, e ce lo siamo detti più volte durante questi mesi. Ma talvolta è anche scoraggiante, vista l'evidente assenza di capolavori assoluti.

Giusto sul problema della selezione si sono appuntati alcuni pubblici dibattiti degli ultimi mesi, in cui si è imputato agli editori la colpa di non saper più agire da filtro. E in effetti, la produzione compulsiva e insieme assai disomogenea che caratterizza ormai anche le case più blasonate sembra convalidare l'assunto. Ma c'è forse un equivoco da dissipare.

Davvero si chiede chi passa in rassegna i prodotti di grandissimi editori assieme a quelli di minuscoli e talora improvvisati stampatori , davvero è venuta meno la selezione un tempo operata dall'editoria, quella selezione che, secondo alcuni, consentiva di inquadrare un'opera già in base alla sede di pubblicazione, avendo ogni casa e ogni collana una precisa identità in fatto di livello qualitativo, diritture ideali, gusto, pubblico di riferimento? Il problema, enunciato in questi termini dalla critica più ferrata, è reale ma appare forse mal posto a chi registri, come ci è capitato a più riprese, che i criteri di scelta editoriale non sono venuti meno. Sono semplicemente mutati, seguendo logiche mercantili che sfuggono, o non interessano, a chi come noi non si preoccupi della riuscita commerciale. Ciò priva, tuttavia, di un comodo supporto, rendendo più oneroso il nostro ruolo di selezionatori. Quasi gli unici rimasti, forse, in compagnia dei lettori, i quali pure selezionano, ma in base a legittime pulsioni individuali. Quasi gli unici rimasti dopo che la critica professionale pare essersi arresa a un mero esercizio catalografico, oppure si rinserra in una funzione giudicante accanita e in sé lodevole, ma ormai priva di pratiche conseguenze.

Non tentiamo oggi di offrire una descrizione onnicomprensiva di tendenze, di generi, di forme e temi ricorrenti. Nell'estrema dispersione favorita dalla quantità e dall'evidente sforzo di molti autori massime i minimi a cercare un'identità in qualche nicchia riconoscibile, la tassonomia si sperderebbe in mille rivoli. E soprattutto, lascerebbe non risolto un problema: quello della scelta finale di cinque libri che si ritengano ragionevolmente proponibili a un vero ed eterogeneo campione statistico di trecento lettori.

Per risolverlo, occorre convergere per approssimazioni successive su criterî non predefiniti, ma rinegoziati di continuo. E occorre rassegnarsi alla provvisorietà malcerta della agnizioni, che poche pochissime certezze non bastano a risarcire. Per questo, come tutti noi durante i lavori di questi mesi, procederò inevitabilmente per disordinati barlumi.

Un'assenza quasi generale che spicca all'occhio di chi è sensibile ai fatti di lingua riguarda appunto il modo in cui la larga maggioranza degli autori che abbiamo esaminato maneggia il mezzo, cioè l'italiano. Il grande assente è lo stile. Diciamolo nel modo più fastidioso: l'esperimento che consiste nel prelievo di un qualsiasi segmento testuale da quasi qualsiasi romanzo pubblicato quest'anno, e nella sua immersione nel tessuto di un altro romanzo dà quasi sempre lo stesso risultato: indistinguibile.

Le migliaia di pagine passate sotto i nostri occhi sono insomma scritte pressoché tutte in un italiano che non oserei chiamare letterario, ma piuttosto editoriale (un italiano degli editor?) cui pare rassegnata la larga maggioranza dei narratori. È un curioso contrappasso quello che ha portato la prosa italiana dall'affannosa ricerca solo un paio di secoli fa di una lingua comune vista come eroico conseguimento di civiltà, alla constatazione che il suo trionfo ha reso possibile il dilagare di uno stile inodore, insapore e incolore in cui pressoché chiunque può cimentarsi, alla peggio col soccorso di un maquillage redazionale cui vien da attribuire almeno l'ultimo strato dell'uniforme patina di cui lingua, stile e persino elementi strutturali e architettonici dei testi paiono tutti placcati.

In tale monotonia, di cui altre letterature hanno già fatto la prova ben prima della nostra, spiccano come pregiate eccezioni i pochi che, magari fallendo o scivolando per la malcerta padronanza del mezzo, si sforzano ancora di torcere il collo alla nuova eloquenza di questo italiano da scuola di scrittura. Spicca, o spiccherebbe, chi non scrivesse romanzi, chi non cercasse una trama, chi non si adattasse a forme di narrazione ben integrate nell'orizzonte d'attesa del lettore o della lettrice media. Spicca però, o spiccherebbe, anche chi si ribellasse ai modi più triti dell'autofiction interpretata come spesso accade quale corrispettivo letterario del selfie. Spicca, quanto alla scelta del contenitore, chi si discosta dalle forme convenzionali per tentare almeno qualche contaminazione con altri tipi di scrittura, o addirittura d'arte: la narrativa d'invenzione versata negli stampi della saggistica, la saldatura fra parola e immagine (che spesso oggi significa: fotografia, non attecchendo al momento in Italia altre forme di mescolanza tra testo e grafismo, altrove dilaganti. Graphic novel: non pervenuta).

Tra consolanti eccezioni e timide buone notizie cui vorrei dare maggior rilievo, l'almeno promesso o accennato disimpegno da uno dei luoghi più promiscuamente frequentati negli ultimi tempi dalla narrativa italiana. Intendo il presente, l'hic-et-nunc di una riconoscibilissima Italia ipercontemporanea, sinistramente popolata di avatar sociologici degli stessi narratori, e forse dei loro aspiranti o aspirati lettori. Mi pare che i prodotti migliori di quest'annata mostrino a più riprese la pulsione a fuggire da questa prigione storico-temporale, da questa camera oscura dell'autorappresentazione, in cui l'aria è ormai davvero viziata.

Più d'una scrittrice e più d'uno scrittore, anche tra quelli più periti e consapevoli, si rivolgono dunque al passato, o talora anche a un altrove geografico in cui pochi intrepidi hanno il coraggio d'avventurarsi. In particolare da alcuni momenti e fasi storiche sembra uscire una forza d'ispirazione universale. Quelli che per tanta letteratura a lungo sono stati gli altrove per eccellenza dell'antichità o della mitologia divengono oggi alcuni passaggi di una storia recente ma già sublimata in categorie all'apparenza classiche, nel senso di inesauribili. Un esempio tipico: la Seconda guerra mondiale, e in minor misura, anche la Prima, complici forse i memoriali in via di conclusione, sono tra i luoghi convocati quali alternative al presente, soprattutto per la dimensione eroica che ne promana, e per gli abissi (soprattutto di male) che vi si schiudono. La guerra per gli scrittori d'oggi è quasi sempre quella guerra: quella primonovecentesca, ormai non vissuta dai più, ma a tutti nota come un tempo erano noti altri paradigmatici conflitti degli uomini o degli dei. Più rari, e non sempre felici, gli scivolamenti verso altri passati, più lontani o diversi in cui i miasmi della scrittura di genere il romanzo storico d'ormai infausta memoria, o la letteratura didascalica rischiano di infettare anche i più cauti. Ancora più occasionali, ma talora felici, gli altrove socioculturali di civiltà ormai estinte, come quella contadina. O addirittura di lingue inventate, mai esistite. Mentre continuano a latitare, e sia detto con rammarico, gli alias logici o concettuali di modalità quasi del tutto disertate, quali, ahimé, l'umorismo.

Accanto al passato (e in particolare a certo passato), anche il futuro verso cui l'attuale orgia tecnologica ci proietta con la profferta quasi oscena delle sue lusinghe sta attirando l'attenzione di alcuni veri scrittori. La via non è quella della fantascienza nel senso usuale, né quella della legittimazione entusiastica del cosiddetto progresso, ma la proposta più o meno riuscita di un domani descritto come allungo ingigantito dei peggiori difetti del presente, o come cassa di risonanza della cattiva coscienza attuale. Un luogo soprelevato dall'oggi e perciò buono per cannoneggiarlo, pur senza alcun compiacimento.

Ecco: è questa forse la funzione che ancora più si apprezza in chi chiede l'ascolto di noi lettori, prima ancora che selezionatori. La possibilità di attrarre davvero la nostra attenzione è ormai minima, dato l'assordante rumore di fondo di altre parole, di altri mezzi, suoni, immagini. Ma vale la pena di provarci, proprio per far tacere l'immonda convulsione in cui siamo immersi.

Non è, si badi bene, semplice ricerca di evasione. Né è chiamata al disimpegno intellettuale. Tutto al contrario. La capacità di offrirci l'alternativa a un presente che conosciamo troppo bene perché ci possa piacere resta una sfida raccolta da alcuni e vinta da pochi. Rimanesse pure inattingibile a tutti, sarebbe comunque una ragione sufficiente, oggi, per la scrittura in italiano. Questa lingua lodata pro forma e trascurata nei fatti, che rischiamo ormai d'abbandonare alle sole cure degli scrittori d'invenzione essendovi negletta ormai la prosa di ricerca, è poco adatta ad amoreggiare con l'omologante squallore globale. È pronta, però, a polemizzare vivacemente con esso, se solo gli volesse opporre con convinzione la forza, la ricchezza e la diversità delle proprie parole.

Commenti