Mario Cervi

L'infallibile "fiorettista" che faceva la punta alla sciabola di Montanelli

A Indro lo legavano la stima e la sintonia intellettuale. Ma i loro caratteri erano distanti

L'infallibile "fiorettista" che faceva la punta alla sciabola di Montanelli

Mario Cervi - cremasco, classe 1921 - aspettò che la brigata Montanelli avesse posto le basi economiche, redazionali, grafiche, organizzative, tipografiche e diffusionali del futuro Giornale, aspettò che fosse stabilita la data d'uscita martedì 25 giugno 1974, san Guglielmo - per far capolino all'Hotel De Milan di via Manzoni dove, grazie alla generosità della proprietaria, Daniela Bertazzoni, Indro aveva domiciliato il quartier generale. Era fatto così, Mario: a lui interessava il mestiere, scrivere e pubblicare, non le grane operative, tecniche e di «cucina», che sono di ogni quotidiano, piccolo o grande che sia. Tant'è che delle responsabilità di vertice non andò mai a caccia: galloni sì (fu anche direttore del Giornale), a quelli non disse mai di no, ma dovevano restare virtuali. Solo in potenza, mai in atto.Veniva dal Corriere, dove era entrato nel '45. Il padre, pellicciaio, era buon amico di Umberto Frisoni, uno degli stenografi (allora e finché non furono scalzati dai dittafoni, dai fax e dalle mail, parte viva e saliente della redazione) del quotidiano. Frisoni ci mise la risolutiva buona parola e Mario varcò come praticante cronista la soglia di via Solferino. Dove fece, e col passo del montanaro, quello sicuro, la sua bella carriera finendo inviato con giurisdizione, per lo più, sulla giudiziaria. I grandi processi, a cominciare - come vice di Dino Buzzati - da quello alla «Belva di via San Gregorio», Rina Fort, per finire al caso Montesi, al caso Fenaroli e all'affare Bebawi, furono sua prerogativa. Fece anche un po' di estero, ma d'alto rango, come la guerra di Suez o il golpe dei Colonnelli in Grecia. Paese che gli era caro, la sua seconda patria, diceva. Lì, ufficiale in grigioverde e dopo l'8 settembre prigioniero dei tedeschi, conobbe Dina, che sarebbe diventata sua moglie. E lì, sulle coste dell'Eubea dove avevano una casa, tornava ogni estate dedicandosi e lo fece fin quasi agli ottant'anni - al suo svago preferito: lo sci d'acqua.Rimasto al Corriere per una trentina d'anni, il passaggio dall'opulenza, i sontuosi spazi, i riti e l'etichetta di via Solferino alla micragna, il baraccamento e l'informalità di piazza Cavour, dove il Giornale aveva rimediato la prima sede, deve essergli costato, conoscendolo, qualche mugugno. Ma essendo della scuola del «never explain, never complain», non lo diede a vedere. Si trovò un angolo e riprese a fare quel che da anni faceva quando non in giro per servizio: leggere la quotidiana montagna, mai meno di una dozzina, di giornali. Leggere, non sfogliarli dando una occhiata, non limitandosi a quei due o tre articoli per testata: passandoli in rassegna e soffermandosi dalla prima all'ultima pagina. Leggerli a modo suo è cioè non dispiegati sulla scrivania, come i più fanno, ma tenendoli aperti con le due mani alzate davanti agli occhi. Da dietro quel paravento sbuffava ogni tanto la nuvoletta di fumo del suo toscano e questo era l'unico indizio della presenza dell'appartato, del silente Mario in redazione.Una volta al Giornale ma pur sempre mantenendo la qualifica di inviato, ricoprì il ruolo che più gli si atteneva, quello del commentatore, dell'editorialista «di pronto intervento», come diceva Montanelli. La facilità nell'intervenire senza indugio una qualità sempre apprezzata dei quotidiani gli veniva da quanto accennato prima, dal suo essere un lettore vorace, ciò che unito a una memoria di ferro e magistralmente attrezzata ad archivio, gli consentiva di mettersi alla macchina da scrivere già fornito di tutti i dati, gli antefatti, i riferimenti e i virgolettati occorrenti alla stesura di un pezzo ben fatto, ben informato e scritto con quella prosa semplice, pulita, accessibile, che era nelle sue corde. Il più delle volte non doveva nemmeno ricevere istruzioni sul taglio da dare al commento o al fondo. Sapeva, come del resto l'intera redazione il Giornale era Montanelli -, come la pensava Indro. Del quale, però, non era la fotocopia. «Io sono un uomo d'ordine», diceva, «mentre lui è più anarchico». Pur rispettando la linea montanelliana, i suoi articoli risultavano dunque più pacati, più miti, più arrendevoli se così si può dire. E poi il piglio: il pacato e garbato Mario usava la penna - gloriandosene - come un fioretto (e «fiorettista» lo si chiamava talvolta per burla). Indro lavorava più di clava: una clava squisita, elegante, levigata e non nodosa la cui sferzata era addolcita dall'ironia arguta dei toscani.Dopo aver firmato un ultimo grande servizio, il Cile fino al suicidio di Allende, Mario tirò i remi in barca, scegliendo di restarsene a Milano, nel suo ufficio sempre straripante di giornali e in compagnia dell'ultimo dei Golia, i suoi barboncini, tutti chiamati così (e però se femmine, Gilda), uno via l'altro. Viveva il Giornale a suo modo, con passione ma senza mai nemmeno sfiorarne la «macchina». Durante la riunione di redazione mattutina interveniva con i suoi pacati «mi pare», mi pare che meriti seguire questo o quello. S'infervorava quando il capo dello sport riferiva su qualche grande torneo tennistico, sport che Mario amava, da competente, più d'ogni altro. Talvolta baruffava con Egisto Corradi, più portato a una visione pragmatica dei fatti di politica internazionale, mentre Cervi era di natura più prudente, più piedi di piombo prima di prendere partito per questo o quel contendente. Finita la riunione, spariva. Non ricordo d'averlo visto, fuori della redazione, in compagnia di qualche collega o dello stesso Montanelli. Il quale diceva: «Beh, sai, ha una vita sua...» lasciando intendere, bofonchiando qualcosa sui tombeur de femmes, chissà quali.Ricompariva puntualmente il pomeriggio, abbandonando la scrivania solo per unirsi a Indro nella visione fin tanto che lo programmarono - dell'Ispettore Derrick, una serie televisiva tedesca a mio giudizio un po' noiosa (tedesca, appunto...) ma della quale i due erano voraci appassionati. Se doveva scrivere, era velocissimo. Nel paio d'anni che divisi con lui la stanza, mai lo vidi, quando alla Olivetti (quella da redazione, la pesante Lexicon) sollevare la testa dal foglio, lo sguardo nel vuoto alla ricerca dell'aggettivo giusto, del termine corretto, della forma più comprensibile. Picchiava sui tasti come un forsennato, senza praticamente correggere, con la raffica di «x», un solo rigo. Fatto, consegnava l'elaborato al condirettore Biazzi Vergani e si accendeva il mezzo toscano aspettando che anche Montanelli l'avesse letto. Se trascorsi dieci minuti dalla stanza di Indro non usciva un: «Mario!», che stava a significare che c'era da mettere a registro qualche parola di troppo o di meno, se ne tornava nel suo ufficio per procedere alla seconda delle attività dilette: telefonare. Cervi era un telefonatore compulsivo, capace di stare con la cornetta incollata per intere ore. E anche qui: «Indro, ma tu sai a chi telefona così a lungo?». E per tutta risposta: «Eh... ha una vita sua...».Pur avendo per molti anni vissuto fianco a fianco dei due, intendo Montanelli e Cervi, non ho mai compreso bene quale fosse il loro vero rapporto. Mario stimava Indro, i suoi colpi di genio, il suo anticonformismo, le sue mattane, il suo modo brillante di esporre, quella scrittura limpida, di cristallo. A sua volta Indro apprezzava Mario, sapeva di poter contare su di lui, di potergli lasciare le briglie sul collo certo che tutto ciò che scriveva e scrisse montagne di pezzi sarebbe risultato rispettoso di quella conformità, di quella orchestrazione culturale e politica che era la cifra distintiva del Giornale e della quale solo Montanelli, il violino solista, poteva mutare il ritmo, quando non la partitura.I loro rapporti restarono quelli fra buoni colleghi fino al '79, quando fra i due si instaurò qualcosa di più, un sodalizio. Montanelli, troppo occupato col Giornale per continuare a mandare avanti da solo la sua Storia d'Italia, gli propose perché se ne fidava, appunto di affiancarlo («Io faccio un bozzone qui cito Montanelli - in cui, alla documentazione storica, cui provvede Cervi, aggiungo i miei personali ricordi. Poi lui scrive. Poi io rivedo la scrittura di Cervi aggiungendovi del mio, oltre alla prefazione e alla postfazione. E ne viene fuori il libro»). Il sodalizio andò avanti per diciotto anni e quattordici volumi, tutti best seller. Eppure senza che mai ci fosse uno screzio, un semplice malinteso, fra i due non si instaurò quella confidenza, quella familiarità, quell'affinità, se posso dire, che è fra persone strette da sentimenti di amicizia.C'era ovviamente qualcosa d'altro e di forte se nel '94 Mario non ebbe dubbi nel lasciare il Giornale per seguire Montanelli alla Voce e questo anche se consapevole, come in seguito ammise, di «fare la cosa sbagliata». Una esperienza breve un anno appena, tanto restò in edicola il quotidiano della quale Mario, quando poi tornò a Via Negri, preferiva non parlare. Ci vuole poco a capire come si fosse trovato a disagio, nella sguaiata Voce, giornale che nemmeno a Montanelli, che pure ne era il direttore, piaceva.Quando tornò fra noi, ritrovammo il Mario Cervi di sempre. Affabile, pacato, cordiale e infaticabile al computer che proprio allora stava prendendo il posto della macchina da scrivere. Le uniche novità erano rappresentate da un nuovo Golia (o era una Gilda?) e dall'austerity che si era imposto sul fumo. Ora un toscano, scrupolosamente ghigliottinato in tre parti, se lo faceva bastare per l'intera giornata. Fino al giorno della maledetta caduta e conseguente rottura del femore, il Giornale non lo lasciò più, anche fisicamente. Seguitò a venirci ogni giorno, cogli anni, poi, almeno la mattina. Pronto a divorare la mazzetta o «fascetta», come lui aveva imparato a dire ai tempi del Corriere - pronto a scrivere se ce n'era bisogno. E siccome era un bisogno anche suo, non potendo nemmeno concepire di star troppo senza scrivere l'occasione se la trovò da sé aprendosi una quotidiana «Stanza» di colloqui con i lettori. Come suo dirimpettaio di pagina, ogni tanto si baruffava per esempio, riguardo al Meridione: lui era un risorgimentalista doc, con tutto ciò che significa. Io, il contrario ma sempre, il mattino dopo, arrivava la telefonata: «Sono Mario, mica te la sarai presa...». L'ultima volta l'ho sentito al telefono una decina di giorni fa. «Come va, Mario, com'è l'umore?». Mi rispose con una voce affaticata da mettere i brividi: «Bene... compatibilmente». Poi prese fiato e continuò: «Hai preparato il coccodrillo? Spetta a te, no?». «Beh, no, che dici, quale coccodrillo, cosa vai a pensare...». «Ma dài... trattami bene, non fare come Indro» (come è noto, fra le lodi e le eventuali lacrime, negli epicedi di Montanelli agli amici schioccava talvolta la frustata.

Sempre la baia).

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