Cultura e Spettacoli

Luci e ombre di Anfuso, il bello della Terza pagina che giurò fedeltà al Duce

Tornano le memorie dell'ambasciatore fascista, letterato e amico (con destino diverso) di Ciano

Luci e ombre di Anfuso, il bello della Terza pagina che giurò fedeltà al Duce

Geniale animatore della vita culturale romana, il regista e critico Anton Giulio Bragaglia pubblicava, come bollettini della sua «Casa d'Arte Bragaglia» inaugurata nel 1918 da una personale di Giacomo Balla, degli opuscoletti dal titolo impertinente: Index rerum virorumque prohibitorum dove riversava i suoi umori (e, più spesso, malumori) e le sue impertinenze nei confronti dell'ambiente intellettuale. In uno di questi fascicoletti fece le pulci ai «Cinque Belli della giovane letteratura di terza pagina»: Suckert, il futuro Malaparte («che capelli lisci!»); Antonio Cecchi («quello dai bei mostacchini»); Orio Vergani («più bello persino di sua sorella»); Ermanno Contini (il cui «solo difetto» era di «avere le mani grandi come quelle di Trilussa»); e Filippo Anfuso (con «gambe un po' storte ma occhi leggendari»».

Di questo quintetto, l'ultimo, Filippo Anfuso, avrebbe intrapreso una strada diversa da quella dei compagni: la carriera diplomatica. Tuttavia, all'epoca in cui scriveva Bragaglia, questo giovane siciliano di bell'aspetto era nato a Catania da agiata famiglia di armatori sbarcato a Roma per cercar fortuna nel giornalismo pensava, più che a studiare, a godersi la bella vita, frequentando teatri, coltivando successi galanti e trascorrendo le serate al mitico Caffè Aragno o nelle redazioni. Tra la combriccola di giovani amici, ce n'erano altri come Leo Longanesi e, soprattutto, Galeazzo Ciano, anch'egli, a quell'epoca, aspirante letterato e protagonista della vita bohémienne della capitale.

Il rapporto tra Anfuso e Ciano, che era più giovane di due anni, divenne molto stretto. Nel bellissimo saggio premesso alle memorie di Anfuso pubblicate ora in Francia (dove erano già apparse per la prima volta nel 1949) col titolo Du Palais Venise au lac de Garde 1936-1945. Mémoires d'un ambassadeur fasciste (Perrin, pagg. 444, euro 23) Maurizio Serra definisce i due «fratelli separati» e «autori di un solo libro». È una notazione felice sia per quanto riguarda il loro destino umano Ciano protagonista della congiura antimussolinana del 25 luglio e vittima, più che della vendetta nazista, del regolamento di conti tra fascisti; Anfuso finito tra la pattuglia degli irriducibili seguaci di Mussolini nell'avventura della Rsi sia per quanto concerne la loro attività di scrittori. Entrambi scrissero diversi libri (Anfuso si cimentò anche con la narrativa), ma entrambi sono ricordati per i loro due volumi di memorialistica. E ben a ragione. Il Diario di Galeazzo Ciano e il Da Palazzo Venezia al Lago di Garda di Filippo Anfuso sono due opere importanti che, dedicate più o meno allo stesso arco temporale, costituiscono nel loro insieme la più significativa testimonianza sull'Italia fascista e la sua politica estera.

È suggestivo leggere le memorie di Anfuso anche alla luce dell'amicizia con Ciano e del loro diverso destino. I due si prepararono insieme per superare il concorso diplomatico e lo vinsero entrambi nel 1925, ma Anfuso si classificò primo. Tra le prime sedi diplomatiche della sua carriera vi furono Monaco e Berlino. In seguito qualche storico avrebbe fatto osservare, con un pizzico di malizia, che questi iniziali soggiorni diplomatici in terra tedesca avrebbero instillato in lui quella germanofilia che lo avrebbe fatto diventare l'ultimo ambasciatore di Mussolini a Berlino. Niente di meno vero, come ben sottolinea Serra, perché molti giovani intellettuali siciliani, il più illustre dei quali fu Luigi Pirandello, si recarono in Germania e si dissetarono alle fonti della cultura tedesca senza implicazioni politiche. Per la verità, anche Ciano, nel suo Diario, contribuì a costruire questa immagine definendo Anfuso «il più germanofilo dei miei collaboratori». Ma ciò non toglie che sia una falsa immagine e le memorie di Anfuso lo mostrano molto bene.

A differenza del genero di Mussolini, Anfuso che ne divenne capo di gabinetto e gli fu stretto collaboratore era troppo disincantato, realistico e, soprattutto, scettico per porgere orecchio in maniera acritica alle lusinghe delle sirene tedesche. Nelle pagine, per esempio, nelle quali rievoca il primo viaggio di Ciano a Berlino, descrive con ironia gli approcci seduttivi dei tedeschi nei confronti degli italiani. Ci mostra gerarchi nazisti con gli occhi scintillanti di entusiasmo che prendono sottobraccio i membri della delegazione italiana parlando loro del «divino connubio tra Mussolini e Hitler» oppure, con la «condiscendenza affettuosa di viaggiatori consumati», sfoderando il repertorio di luoghi comuni e glorie culturali sull'Italia.

Tanto Anfuso quanto Ciano furono germanofili ma con sentimenti diversi. Il primo, più razionale e scettico, non era privo di quel senso critico che lo avrebbe spinto a manifestare più volte dubbi di fronte agli sviluppi di quella che Maurizio Serra definisce «l'alliance-compétition» di Mussolini con Hitler. Amicizia e affetto legavano Anfuso a Ciano, ma nelle memorie il giudizio di Anfuso è preciso: «Ciano ha giocato con un meccanismo politico non latino e pericolosamente complicato dall'assolutismo germanico. È stato maciullato. Sino alla fine del 1941 gli ho detto queste cose: mi ascoltava, sapeva che gli parlavo sinceramente, ma non se ne curava». Secondo Anfuso la «germanofilia» di Ciano fino all'agosto 1939 dovrebbe essere meglio definita filo-mussolinismo, ma l'ammirazione per il Duce era complicata dalla sua personalità che lo portava «a vedersi nell'umiliante situazione di un Ministro degli Esteri di un grande Paese beneficiario degli onori connessi alla carica, ogni giorno costretto a presentarsi a un suocero che ti tiene in piedi, anche davanti a degli stranieri, e ti ascolta, nei giorni migliori, con burbera sopportazione».

Nell'autunno 1941 Anfuso ottenne di essere inviato a Budapest. Da qui l'anno successivo inviò a Ciano una relazione nella quale sosteneva l'opportunità di ricercare una pace separata concertata coi tedeschi sulla base del principio che la Germania dovesse essere «lasciata ma non tradita». Alla vigilia del 25 luglio 1943, «una faccenda di servi che ingiuriano il padrone mentre la casa sta per cadergli addosso», Anfuso, tornato temporaneamente a Roma, cercò di mettere in guardia Ciano dai tedeschi. Rientrato a Budapest, apprese la notizia dell'armistizio, prima, e della liberazione di Mussolini, poi, cui inviò il celebre telegramma: «Duce, con voi fino alla morte». Fu uno dei pochi diplomatici ad aderire alla Rsi e, ambasciatore a Berlino e quindi sottosegretario agli Esteri, si adoperò nell'impossibile impresa di garantire nei confronti dei tedeschi l'autonomia del nuovo Stato fascista.

Le sue memorie, redatte nell'immediato dopoguerra mentre era in carcere in Francia (rientrato in Italia, Anfuso fu deputato missino e morì nel 1963), sono non soltanto una testimonianza di prima mano, ricca di particolari e retroscena, sul periodo della sciagurata alleanza tra fascismo e nazionalsocialismo, ma anche un testo letterariamente godibile.

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