Cultura e Spettacoli

"La mia Trieste divisa dove si specchia l'intero Novecento"

Lo scrittore: "Le foibe, San Sabba, la cortina, Basaglia... E anche una grande letteratura"

"La mia Trieste divisa dove si specchia l'intero Novecento"

C'è l'agendina della nonna, scritta a matita fitto fitto. Una fotografia del nonno in divisa austriaca, una cartolina dal fronte (censurata, la portò a casa a mano). Per costruire La città interiore Mauro Covacich, triestino trapiantato a Roma ormai da dodici anni («Perché? Per amore») ha usato «le prove» che aveva in casa e in famiglia. Le conversazioni con gli amici. Perfino un elettricista albanese che, mentre gli ristruttura la casa, gli racconta che suo zio è stato uno dei traduttori della Divina Commedia nel suo Paese. O un omonimo croato, Ivan Goran Kovacic, autore nel '42 di un poema, Jama (cioè foiba) in cui racconta un'esecuzione di massa compiuta dagli ustascia e il quale, a sua volta, sarà ucciso dai cetnici (la sua tomba rimane introvabile, Covacich la va a cercare invano). Così è nato il suo nuovo romanzo, appena pubblicato da La nave di Teseo (pagg. 234, euro 17), che Mauro Covacich presenterà a Trieste sabato, alla Libreria Caffè San Marco.

Trieste è la città interiore per eccellenza.

"In realtà la città interiore è la rete di nessi affettivi e letterari che creo all'interno del libro. Una specie di mappa mentale. Poi certo, la mappa reale è Trieste. Diciamo che è lo sfondo del romanzo, considerando lo sfondo come uno dei personaggi principali".

Che romanzo è La città interiore?

"È un romanzo sulla mia vita considerata come il frutto di un intreccio di storie, luoghi e persone che vengono da più lontano. Appartenenze che danno conto dell'anomalia di Trieste".

Come?

"Per esempio avevo un nonno sloveno in confino politico come comunista, che si è sempre rifiutato di andare in Jugoslavia; e, dall'altra parte, un nonno nella Regia Marina, fervente fascista. La mia vita può essere interessante come metonimia di Trieste: un punto di osservazione per poter restituire la sua complessità. Poi molti nessi sono anche casuali".

Per esempio?

"Beh, abito a 300 metri dall'appartamento dove Joyce scrisse i primi tre capitoli dell'Ulisse: è una presenza con cui fai i conti. E poi il caso di Nino Bibalo, considerato uno dei più grandi compositori del Novecento in Norvegia e da noi quasi sconosciuto".

All'inizio del libro chiede a suo padre: "Se son italian, perché me ciamo Covacich?".

"È la domanda rimasta per tutta la vita, la cui risposta è l'identità multipla di Trieste. Quando faccio questa domanda a mio padre ho 7 anni. È il '72, Trieste è ancora divisa in Zona A e Zona B, la città poi italiana e l'entroterra, dove andavamo a comprare la carne, la benzina. Ma nel manicheismo buoni/cattivi, italiani/sloveni, per un bambino essere chiamato col nome dei nemici è strano".

Che origine ha Covacich?

"Croato. Significa Del Fabbro. Però mio nonno era sloveno. La domanda quindi è: fino a che punto sono italiano? E poi noi triestini abbiamo tutti un rapporto particolare con l'italiano: come Svevo che l'aveva imparato sui libri di scuola, noi parliamo e pensiamo in triestino. Non è un caso che sia stato uno scrittore come Coetzee a capire così bene questo aspetto di Svevo".

Che cosa ha capito Coetzee?

"Da boero, che ha imparato l'inglese sui libri ma in casa parlava afrikaans, si chiede: chissà quante cose cela Svevo, quanto avrebbe potuto dire, se avesse scritto in triestino".

Nel libro, lei immagina Joyce rimproverare questo a Svevo.

"Joyce e Svevo erano amici e comunicavano in triestino. Nel libro c'è questa lettera che Joyce gli scrive, tutta in triestino, che ho spedito anche a Coetzee. Insomma c'è un elemento di inevitabile limitazione, però il grande scrittore, come Svevo, o Konrad, o Beckett, o Cioran può trasformarla in una risorsa. Questo scrivere come in una lingua straniera è uno specifico triestino, in tutte le epoche".

Il romanzo è ricco di aneddoti. Da dove vengono?

"Dalla memoria di Quarantotti Gambini. C'è un suo incontro diretto con Svevo, da studente: tornando a Capodistria, sul vaporetto si imbatte in quest'uomo che intrattiene i ragazzi con scherzi, giochi, battute, con una voce stentorea. L'opposto di come uno immagina Zeno Cosini, ma del resto Svevo era un magnate, un capitano d'industria".

E il rapporto con Saba?

"È Saba a raccontare, a proposito della loro rivalità sopita, di un incontro casuale, in cui Svevo ha un accesso d'ira e gli dice, in pratica, ti posso schiacciare come un pulcino, un pulisìn".

Anche Quarantotti Gambini è una figura anomala.

"Sì. Era un profondo antifascista e un profondo anticomunista. Perciò fu impiegato nella propaganda antislava. Era un oppositore strenuo di Tito, per lui il dramma più grande della sua vita era l'Istria diventata jugoslava. Però si trova anticomunista in un momento in cui l'intellighenzia italiana è massicciamente comunista. Nell'Onda dell'incrociatore racconta la mia Trieste, il lato B".

Ci sono due Trieste?

"Sì. Il biglietto da visita, il lato A è quello che conosciamo tutti, il porto dell'Impero, l'eredità asburgica, il passato illustre, anche letterario, l'introduzione della psicanalisi con Edoardo Weiss. Ed è un lato incontestabile, quello di Zeno, anche nevrastenico, in una parola mitteleuropeo".

E il lato B?

"È quello meno letterario e più umano: la città di mare, legata al piacere e al benessere fisico, al godersi la vita. Insomma un lato edonistico, levantino direi, che non passa mai nel suo stereotipo".

C'è uno stereotipo di Trieste?

"Non dico che l'eredità asburgica non esista o sia poco importante. Sarebbe da pazzi. Il punto è non cristallizzare la vita di Trieste e tutte le sue attività culturali su questo cliché. Gli Asburgo se ne sono andati nel 1918, noi siamo nel 2017..."

Che cosa bisognerebbe fare?

"Trieste ha le risorse per guardare ad altre città come Belfast, Gerusalemme, Montreal o Città del Capo: città dove l'odio si è trasformato in una forma di convivenza".

A Trieste è successo così?

"Noi per cinquant'anni abbiamo vissuto un odio feroce tra italiani e sloveni. Oggi però non ci si accorge neanche di questo attrito: secondo me a Trieste dovrebbe tenersi un seminario internazionale permanente sull'odio".

Invece ci si copre con la "trapunta asburgica"?

"Si vuole rimuovere il Novecento. Noi abbiamo avuto tutto: il crematorio di San Sabba, le foibe, la riforma psichiatrica di Basaglia, la Zona A e B. Trieste è il corpo vivo del Novecento. Ma tutto questo è stato rimosso, perché non rientra nel cosiddetto storytelling, nella narrazione principale della città finis Austriae".

Perché viene rimosso?

"Perché è più facile l'automatismo Trieste-Vienna che lo sforzo di trovare discorsi più complessi. Così mi liquidano come uno che ce l'ha con l'Austria. Ma io amo l'Austria, lo dica, i miei punti di riferimento letterari sono austriaci, Handke, Bernhard...".

Perciò la questione dell'identità è sempre così centrale, quando si parla di Trieste?

"Sì, perché è paradossale. Per usare la definizione di Quarantotti Gambini, un italiano sbagliato. È trovare la propria identità nella non appartenenza.

E la vocazione forte all'essere italiani nasce da qui: perché è il posto in cui l'Italia smette di esistere".

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