Cultura e Spettacoli

Montagne rosso sangue La frontiera di Righetto arriva al di là del western

Lo scrittore veneto infrange i generi e racconta una storia di coraggio e violenza nell'800

Montagne rosso sangue La frontiera di Righetto arriva al di là del western

Ci sono libri che sanno di fortuna. Il nuovo romanzo di Matteo Righetto, L'anima della frontiera, è uno di quelli.

Esce oggi con grande battage da Mondadori, il maggior gruppo editoriale italiano. I diritti di traduzione, prima ancora dell'uscita da noi, sono stati venduti in più di dieci Paesi: Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Germania, Olanda... Ed è una di quelle storie che profuma già di cinema. Andrà benissimo.

L'editore lo presenta come un «western letterario», e la copertina è a metà fra la locandina di un film di Duccio Tessari e un albo di Ken Parker. Molto pop. E va bene così. Anche nel caso del nuovo romanzo di Omar Di Monopoli Nella perfida terra di Dio (Adelphi) i giornali hanno parlato di «western gotico», tirando in ballo nomi di un certo peso: Sam Peckinpah, Quentin Tarantino, William Faulkner... Forse è una moda editoriale. Uuhmmmm... No. L'anima della frontiera di Matteo Righetto - di Padova, 45 anni, cinque romanzi, di cui uno, La pelle dell'orso, lo scorso anno è diventato un film con Marco Paolini - non è un western padano, va molto al di là. È un romanzo senza aggettivi di genere, anche se i personaggi se ne vanno in giro a cavallo, cappello a tesa larga in testa e Werndl-Holub sempre carico in spalla. E anche se l'esergo porta una frase di Cavalli selvaggi di Cormac McCarthy e ci porta dalle parti della Trilogia della frontiera.

Qui siamo dalle parti della Val Brenta, incuneata tra l'Altopiano di Asiago e il massiccio del Grappa. L'anno in cui tutto inizia è il 1888. Il luogo, Nevada: sembra il nome di un deserto, è quello di una manciata di casupole inerpicate sui versanti vertiginosi della riva destra della Brenta. I De Boer sono una famiglia di contadini montanari. Come tanti, da quelle parti, tirano avanti coltivando tabacco sui terrazzamenti sostenuti coi muri a secco, le «masiere», che s'innalzano sui pendii delle montagne fino a 400-500 metri sul livello del fiume. Di tabacco si muore, sostiene la scienza. Di tabacco si vive, ha sempre detto la gente del Brenta.

I De Boer - capofamiglia taciturno e tenace, moglie fedele e infaticabile, due figli maschi e una figlia che vi sorprenderà, tutti attaccatissimi alla casa e alla terra - in realtà non vivono di tabacco. Sopravvivono. Fra annate storte, fame, nevicate, frane, tassazioni sanguinarie e implacabili controlli degli ispettori della «Regia dei Tabacchi».

Terra dove si lavora tanto per avere poco, l'alta Valbrenta - stretta tra gli italiani e gli austriaci - è uno scenario perfetto per una storia epica, drammatica e letteraria. In particolare se la fatica e i sacrifici no bastano per sfamare cinque bocche. Bisogna contrabbandare. Nascondere qualche sacco di tabacco ai funzionari del Re, portarlo oltre frontiera sfuggendo alla sorveglianza dei finanzieri, agli agguati dei banditi e all'attacco delle bestie feroci, e scambiarli con piccoli lingotti d'argento e di rame trafugati dai minatori austriaci nella valle di Primiero... I pericoli sono tanti. «Ma il richiamo della frontiera fu più forte di tutto il resto».

Qualcuno dovrà partire: rischiando di perdere tutto per trovare quello che cercava, mettendo a repentaglio la vita per saziare altre vite, e uccidere - se necessario - per non morire. Sapendo che ogni viaggio, portato all'estremo, non solo cambia intimamente chi lo ha compiuto, ma anche tutti i luoghi e le persone che ha attraversato. E su tutto spira il vento della frontiera, ma «non si tratta di un vento come gli altri, bensì dell'anima leggendaria della frontiera, uno spirito antico, vecchio almeno quanto la montagna, uno spirito che soffia forte e che di secolo in secolo si sposta seguendo le frontiere degli uomini».

Sulle montagne o si vive o si muore, non ci sono vie di mezzo. E nei romanzi, o si trova una buona storia da narrare, e in una buona lingua, o ci si perde. Matteo Righetto ha trovato la sua storia (potente, insidiosa, temibile) e la sua lingua (lucida, epica, solenne). L'anima della frontiera è un romanzo in cui si sentono l'ululato dei lupi, il bubolare del gufo, il formicolio degli insetti nei prati, in cui si sente la Natura parlare e muoversi (tutto accade in un mondo in cui «soltanto la natura ha rispetto per se stessa, persino quando è crudele»), in cui si sentono tutte le passioni e gli impulsi degli uomini: l'affetto filiale, il tradimento, l'avidità, l'irrazionalità (si balla il sabba nella notte di Ognissanti nei boschi...), il coraggio, la bestialità, la doppiezza, l'altruismo, la violenza, il senso del sacro. Rabbia, vendetta e giustizia.

Misterioso, «biblico», impetuoso, il romanzo di Matteo Righetto racconta tutte le implicazioni dell'attraversamento della frontiera. La frontiera, fisica, che divide il Regno d'Italia dall'Austria-Ungheria alla fine dell'Ottocento. La frontiera, eterna, che divide i prepotenti dai poveri cristi, ossia «chi si sollazza di cibo e di potere e chi invece patisce la fame e deve spaccarsi la schiena per un pugno di polenta». E la sottile frontiera, metafisica, che separa il bene dal male, «quella invisibile linea di demarcazione tra ragione e follia che si cela in ogni animo umano, trasformando gli angeli in demoni e i demoni in angeli».

E attraversarla, anche per il lettore, non solo i personaggi, significa non essere più gli stessi.

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