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Mostrata una parte dell'atteso sequel nei cinema il 5 ottobre

Mostrata una parte dell'atteso sequel nei cinema il 5 ottobre

Fumo grigio acciaio soffocante, ovunque. Nebbia fitta, interrotta qua e là da una desolata devastazione giallo ocra: alberi scheletrici, replicanti bioingegnerizzati e ribellioni violente tra miserabili senza speranza. Nella California del 2049 non c'è posto per gli esseri umani, eppure il detective KD6-37 della Polizia di Los Angeles (Ryan Gosling) tenta di combattere quella desertificazione. Cercando l'appoggio dell'ex-agente Rick Deckard (Harrison Ford) sparito nel nulla tre decenni prima, l'unico che sa come opporsi agli arbitrii della Tyrell Corporation. Ritorna l'angoscioso sogno di Blade Runner (1982), trent'anni dopo il film di culto firmato Ridley Scott, evento dell'anima che ha inciso le fantasie di generazioni. Intitolato Blade Runner 2049, il seguito, più malinconico e umanista, di quel capolavoro originario, sta per sbarcare al cinema: dal 5 ottobre, la nuova epifania d'un racconto di fantascienza, dove circola un dolore buio, vuoto e desolato, narrerà il nebuloso punto d'arrivo dell'impero digitale.

Nei venti minuti mostrati ieri dalla Warner (con embargo: niente spoiler, temuti dal regista canadese Denis Villeneuve, 50 anni il 3 ottobre e capolavori come Arrival e Sicario all'attivo), una cosa si capisce subito: siamo messi male, molto male. Perché il potere controllante risponde a un codice maligno, il cui virus ha distrutto la natura.

Un budget importante (185 milioni di dollari); un cast notevole (oltre ai citati, Robin Wright, Jared Leto e Sylvia Hoecks, ieri alla tavola rotonda imbandita per il blockbuster più atteso della stagione) e il rispetto filologico per uno dei film più significativi dell'éra ante Internet, fanno di Blade Runner 2049 una sfida non ignorabile.

«Vorrei partire dalla definizione di replicanti, per me esseri artificiali sintetici, progettati per essere sfruttati. Queste creature sono molto simili agli esseri umani. Ma mentre nel Blade Runner originale circolava una visione più bella del futuro, nel mio film le cose sono andate per il verso storto. Il clima s'è evoluto verso la desertificazione e chi sopravvive lo fa in condizioni terribili. L'Oceano s'è innalzato e le città erigono un muro per proteggersi. Inoltre, Internet non è una bella cosa», spiega Villeneuve, sottolineando come per gli sceneggiatori non ci sia nulla di peggio che mostrare poliziotti dietro alla scrivania, in cerca di indizi al computer. Dopo il blackout che ha distrutto i «big data», si cerca di tornare alla civiltà analogica.

«C'è una riflessione sul ruolo della memoria e sulla fragilità del digitale: il protagonista deve mettere le mani nel fango, invece che sulla tastiera», scandisce il regista, il quale sposa un'estetica sospesa tra il retaggio umanistico del Mito (Jared Leto è il creatore di replicanti cieco, novello Tiresia ispirato) e suggestioni pittoriche contemporanee alla Hopper, soprattutto quando il giallo intenso illumina gli scenari più umani, dove compare Harrison Ford con cane e bottiglia di whiskey al seguito. «Ci sono voluti mesi, prima che accettassi la regia di questo film: ho detto sì, quando mi sono sentito in pace con l'idea che avrei potuto fallire. Perché se rifai Blade Runner, le percentuali di successo sono esigue. Eppure lo considero il mio film migliore», sibila il canadese, legato all'originale di Scott, «uno di quei film che mi hanno fatto pensare di voler diventare regista».

E se oggi «il nostro rapporto con la natura è pessimo, perché abbiamo perso il contatto con essa», il mondo di Blade Runner 2049 è un pianeta dove nevica. «Per me che sono canadese, è importante. La neve e la luce dell'inverno hanno caratteristiche particolari, che abbiamo riversato nel film. Insieme a Roger Deakins abbiamo seguito modelli estetici dell'originale, strutturando il racconto attorno al colore. Il giallo è un elemento importante: l'ho scelto perché legato alla mia infanzia». Villeneuve odia il verde, quindi niente «green screen». Così la tecnica CGI è stata tralasciata in molte scene, eliminando i fondi digitali. «Abbiamo costruito fisicamente tutti i set. Volevo lavorare con cose vere, tornare a un cinema fatto di cose reali».

Quanto a Ryan Gosling, è lui a «portare il film sulle sue spalle, né potevo immaginare nessun altro in quella parte. Amo gli attori che sono il personaggio.

Come Clint Eastwood, carismatico anche senza muovere un sopracciglio».

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