Cultura e Spettacoli

Nella Rete delle ultime parole (non) famose

Gabriele Tinti ha raccolto una collezione di addii prima del suicidio

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«Di cos'altro bisognerebbe parlare? Questo è il tema necessario della letteratura, il tema fondamentale», dice lui. Prima di lui lo aveva già detto Albert Camus, senza fronzoli. Prima frase del Mito di Sisifo: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». Sul suicidio si è fatta fin troppa letteratura: dal re delirante Saul ad Aiace, da Pier delle Vigne allo svenevole Werther allo sventato Jacopo Ortis. Sul corpo dei suicidi, frollato nella colpa, grava la sentenza leopardiana (nel Bruto minore): «Spiace agli dèi chi violento irrompe/ nel Tartaro». «Tutto il mio lavoro è centrato sulla morte», dice ancora lui, Gabriele Tinti, che ai suicidi ha dedicato un libro grave e assurdo.Gabriele Tinti sta tra Senigallia, nelle Marche, e New York. Non è uno stilista, non è uno snob, non è ricco di famiglia. Nelle Marche insegna ai disabili; a New York è un poeta apprezzato. «So di essere un outsider. E un diverso. Perché non faccio parte di alcun gruppo, di nessuna rivista, non conosco nessuno nel mondo della poesia italiana», dice lui, ma è quello che in fondo dicono tutti. A Gabriele Tinti, precisando, fa schifo la letteratura italica. Non sopporta «la chiacchiera a cui si è ridotta la letteratura di oggi», sente come tutti «il desiderio di parole definitive, reali, concrete, vere». Per questo, da anni raccoglie le parole dei suicidi. Le parole ultime e testamentarie, che scova nel sacrario di Internet. Sono morti anonime, una falange di sconosciuti, italiani, francesi, americani. Questo lavoro sepolcrale, in sessantanove messaggi, da «Non rinuncio facilmente, ma stavolta non riesco a vedere una via d'uscita da questo buco nero» a «Fine», è diventato un libro che agghiaccia, Last words, uscito in novembre («l'estate, fredda, dei morti» del Pascoli) per Skira in Italia e a febbraio negli Stati Uniti. Pratica nota per Tinti, il libro oltreoceanico: due anni fa il ciclo di poesie All over, dedicato ai pugili «lavorando sull'etica della sconfitta», ebbe fiamme di fama dopo che fu letto al Getty Museum da Robert Davi, uno dei cattivi del cinema internazionale (l'abbiamo visto ne I Goonies, in 007: vendetta privata e ne I mercenari 3, per dire).L'insegnamento che dona il libro di Tinti è che non basta suicidarsi per diventare uno scrittore, la letteratura è spietata, si commuove davanti a un suicida come di fronte a un Bacio Perugina. Le parole ultime raccolte con cura da Tinti spiccano per la loro banalità («Mi hai strappato l'anima. Non ho più ragione di respirare»), per l'accumulo di cliché («Ancora una volta ho mandato a puttane la mia vita e questa volta non c'è rimedio»; «Mi dispiace tanto per favore perdonatemi tutti per quel che sto per fare»), per il valzer di paradossali ovvietà («Apprezza ogni giorno che nasce, apprezzane ogni minuto»). C'è chi imbocca l'etica darwiniana («La sopravvivenza del più adatto. Adiós inadatti») e chi ha afrori cristici («Mi sacrifico per salvare i moltissimi che morirebbero se dovessi vivere. È una nobile causa, suppongo. Una buona ragione per morire. Mi piace pensare che sareste d'accordo»), ma l'insegnamento mistico per davvero, feroce e severo del libro, è che bisognerebbe morire in silenzio, diritti, senza sparpagliare rancori o irrorare colpe.Esito: la vita non basta. Per realizzare la morte, è ancora necessaria la letteratura. L'Intervista a un suicida di Vittorio Sereni (incipit memorabile: «L'anima, quella che diciamo l'anima e non è/ che una fitta di rimorso»), ad esempio, è un talismano necessario. Come il Memorandum per un vecchio amico di Ryunosuke Akutagawa, che prima descrive, in forma estetica perfetta, come ci si uccide, per poi uccidersi davvero, compiendo il suo racconto (per la cronaca: ingerendo una quantità folle di Veronal, a 35 anni, il 24 luglio del 1927). Un testo meditabondo e terribile («Da due anni penso unicamente alla morte»), si risolve in grazia: «la natura mi appare così splendida perché sono gli estremi sguardi che le rivolgo». Si può scrivere davvero, dice Akutagawa, soltanto se si osservano le cose per l'ultima volta, sempre sul ciglio della fine.

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