Cultura e Spettacoli

Il nuovo libro della Ferrante fiera (geniale) delle banalità

«La vita bugiarda degli adulti» sarà un altro bestseller L'autrice misteriosa è abilissima nel dire cose scontate

Il nuovo libro della Ferrante fiera (geniale) delle banalità

Bah, boh, mah... L'ultimo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti (e/o, pagg. 336, euro 19), sarà il primo di una serie, uscirà domani in libreria, l'ho letto in anteprima grazie a un codice segreto fornitomi dall'editore, ti lascia l'insipido addosso, si riassume in tre lettere, bah, interiezione che per la Treccani significa «meraviglia, spregio, rassegnazione», io punto sulla terza. Il romanzo narra l'adolescenza di Giovanna, detta «Giannì», sgraziata come tutti i ragazzini, stordita da una frase buttata lì dal padre, idolatrato, colto, bello, «sta facendo la faccia di Vittoria». Vittoria è la sorella del padre di Giovanna, additata da tutti come brutta & invidiosa, è la strega cattiva della storia. Giovanna anatroccolo napoletano è falciata dal giudizio del padre («Fu così che a dodici anni appresi dalla voce di mio padre, soffocata dallo sforzo di tenerla bassa, che stavo diventando come sua sorella, una donna nella quale gliel'avevo sentito dire fin da quando avevo memoria combaciavano alla perfezione la bruttezza e la malvagità») a tal punto da pretendere un incontro con l'enigmatica zia.

Il legame tra Giovanna e la zia, maliziosa, sboccata, emblema della trasgressione, è la formula che fa svanire la famiglia felice: il papà di «Giannì» lascia casa, si scopre che ha da anni una tresca con Costanza. Sotto l'aura di Vittoria, Giovanna cresce assatanata di voglie (la zia, a pagina 73, svezza la nipote al sesso dicendole dell'amante, ora defunto: «Poi lui mi metteva il cazzo assai dentro e mi teneva il culo con tutt'e due le mani, una di qua e una di là, e mi sbatteva con una forza tale che mi faceva gridare. Se tu questa cosa, in tutta la tua vita, non la fai come l'ho fatta io, con la passione con cui l'ho fatta io... è inutile che campi»), infine represse, come la figura della zia, che nel corso della narrazione, ambientata, va da sé, a Napoli, si fa opaca, sfocata.

Ragazza, Giovanna s'innamora di un baldo Roberto, che sta a Milano, ma è ovviamente promesso a un'altra. Non riuscendo a farsi sbattere da lui, se la fa con il meno aitante Rosario, nella scena che chiude il libro, che dovrebbe essere di sesso ma è semplicemente brutta («Glielo toccai, era caldo come se lì avesse la febbre. Poiché tutto sommato era piacevole stringerglielo, non ritrassi la mano»). A legare la storia, c'è un braccialetto che funge da maleficio, come l'anello nella trilogia tolkieniana o la mela nella favola di Biancaneve.

Il libro è tutto qui: il bello è che si legge in una nottata, il fatto è che di quella nottata non resterà nulla se non l'untuoso ricordo di una storia «da camera», come tante, come tutte. Per la Ferrante bisognerebbe coniare un nuovo termine estetico: «la banalità del dire». Ha, cioè, il dono magnetico, per carità di dire in modo complesso concetti altrimenti banali («Sono tuttora incuriosita da come il nostro cervello elabori strategie e le attui senza svelarsele. Dire che si tratta di azioni inconsapevoli mi sembra approssimativo, forse persino ipocrita»). Scrive, la Ferrante, in tono vintage, per teleutenti Rai, con gergo generalista. In questo caso, però, l'errore di fondo è imperdonabile. Si dice che Giovanna, la protagonista scrivente, sia nata nel 1979, eppure scrive come se vivesse negli anni Cinquanta, pare un personaggio sfuggito dalle trame de L'amica geniale. Chi ha vissuto l'adolescenza nei Novanta, voglio dire, sa l'Aids e lo sballo, gli sbagli e la caduta, la ferocia del sesso per caso, l'ambizione di non avere casa, il sentore del rifiuto, la fine della Guerra fredda, l'inappetenza di vita, l'inappartenenza al proprio tempo. Invece, Giovanna narra come fosse una vecchia, con reflui rococò («Furono attimi di batticuore»; «Ma non avevo fatto i conti col garbuglio dei miei sentimenti»; «Scoprii che anche i maschi della mia classe parlavano con interesse del petto grosso che avevo», petto?, ma ha scritto davvero petto?), metafore oblique («Il tempo della mia adolescenza è lento, fatto di grandi blocchi grigi e improvvise gibbosità di colore verde o rosso o viola»), amore per l'archibugio («Roberto mi sembrò sorpreso, perfino in apprensione», in apprensione?), morale d'inquieta modestia («Bugie, bugie, gli adulti le vietano e intanto ne dicono tante»: chi ha vissuto i Novanta sa che la menzogna è la verità e se ne frega dei genitori). Vorrebbe essere la Philip Roth italiana, Elena Ferrante, ecco il dramma; la stoffa narrativa c'è a momenti («Vittoria mi sembrò di una bellezza così insopportabile che considerarla brutta diventava una necessità»), spesso la narrazione annoia, è priva della necessaria spietatezza. In ogni caso, ogni esercizio critico è puro ghirigoro sul lago, inutile, inerte: il libro venderà molto, ne mungeranno fiction e film, con applausi & inchini.

Elena Ferrante è un marchio, una griffe: si compra indipendentemente dalla qualità della veste.

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