Cultura e Spettacoli

Paolo Di Paolo racconta la forza di dare la vita anche in un'epoca morta

In «Lontano dagli occhi» prendono corpo tre storie di nascita nell'epoca della legge «194»

Paolo Di Paolo racconta la forza di dare la vita anche in un'epoca morta

«L'età inclina all'austera prosa", scrive Aleksander Pukin poco più che trentenne. Queste parole mi vengono in mente alla lettura del romanzo Lontano dagli occhi di Paolo Di Paolo (Feltrinelli, pagg. 190, euro 16), uno degli scrittori più colti e intelligenti della sua generazione. Ma per dare ragione del mio incipit occorre, va da sé, illustrare il romanzo, che ci racconta tre storie, o tre varianti di un'unica storia, ambientate nella Roma del 1983, anno di nascita dell'autore.

E proprio di nascita si tratta, qui. Un tema che ricorre in molta letteratura di questa generazione (Terranova, Bajani), e che qui assume una forza particolare non tanto per il riferimento autobiografico, quanto per la strategia adottata, narrativa e soprattutto lessicale.

Sono tre storie di nascite nell'età della «194», quando venire al mondo divenne un atto facoltativo (per procura) specialmente per le tipologie umane descritte nel libro, o per la vulgata che le avvolgeva: gente o troppo giovane, o troppo stupida, o troppo infelice, gente affetta da turbamenti consaputi o mascherati, gente precaria, gente mangiata, divorata dalla vita. Gente che aveva tutte le ragioni per non mettere al mondo i propri figli, e invece li mise al mondo.

Essere figli. La questione si pone sempre, quando s'interrompe un sistema di trasmissione della conoscenza. Il parricidio edipico ha una sua precisa variante storica nel momento in cui la cultura non ha più parole per essere tramandata, non tollera la sfida di chi la legge come sorpassata, vecchia, retorica, e lascia posto alla violenza e ai suoi feticci.

La violenza e l'incomprensione dei padri produce figli feriti. Figli non preparati a mettere al mondo altra vita, e che pure - per un sussulto dell'essere, un sussulto che sta in qualche modo oltre la storia, oltre gli antecedenti e le cause - decidono di lasciarla esistere.

In barba alla precarietà, alla fragilità, allo sfascio di una generazione (una tra le più flagellate dalla droga e dalla barbarie dei pedagogisti), la vita si afferma come un atto di totale, quasi demenziale libertà. Di questo mi pare parli il libro, con le sue ingenuità e le sue finezze: come quando Valentina «ruota il polso» per leggere l'ora (a quel tempo tutti indossavano così l'orologio), o come quando l'invocazione di un padre disperato («Dio Dio Dio Dio») diventa «l'espressione dolorosa della sua incredulità».

C'è una parola che colpisce più delle altre, un apax legomenon, che segna il libro. La trovo a pagina 107. Si sta parlando di fumetti, di supereroi: non si diventa supereroi per caso, dice d'un tratto l'autore, occorre essere sopravvissuti a qualcosa, occorre portare una cicatrice.

A questa cicatrice si lega, mi pare, l'atto imperioso della nascita, che sovverte le seduzioni della moda egoista e le meste previsioni di sociologi, tutte géometrie e senza finesse. Noi siamo segnati - chiamiamo questo segno legame ombelicale, circoncisione, battesimo, o anche peccato d'origine: c'è qualcosa che ci tiene i piedi bucati e legati.

Ma ciò che attrae nel libro non è solo questo. È il modo in cui Paolo Di Paolo affronta un'epoca, quella che ospitò la sua venuta al mondo, e che lui ricostruisce con una precisione sorprendente, restituendo colori, odori, luoghi, figure della Roma di quegli anni. Non sono le storie e i personaggi in sé a colpire: questo è se mai il punto debole del libro (più tipologie che veri personaggi e vere storie). L'interesse sta piuttosto nel sistema di scrittura che le ha prodotte, come se Di Paolo attingesse a un enorme archivio dove colori, odori, luoghi e figure siano stati raccolti e catalogati uno a uno. Non so se Di Paolo abbia fatto veramente così (Cormac McCarthy per esempio lo fa) ma questa è l'impressione dominante nella lettura. La fabula rimane sullo sfondo, quasi come un pretesto.

Questa cifra catalogatrice, archivistica mi pare il vero tratto originale di Di Paolo, che pure scrive benissimo, ma che non mi pare trovare nello "scrivere bene" la sua cifra più profonda. Gli scrittori baciati dagli dèi, del resto, spesso dissipano il loro dono in un atto di felice (o necessario) spreco. Di Paolo, viceversa, fa di ogni capello, di ogni respiro un patrimonio, isola ogni cosa e poi la reimmette nel flusso degli eventi.

Mi chiedo cosa ne sarà di uno scrittore così apparentemente semplice e in realtà così complesso, la cui forza non sta nel testo così come appare ma nel lavoro che lo produce. Ecco la ragione della citazione pukiniana in apertura. L'impressione, fallibile finché si vuole, è che ci si trovi davanti a un narratore originale per ciò che ha di non-narrativo. Di Paolo costruisce romanzi come fossero saggi, perché questa è forse la sua natura: quella del critico e, più ancora, dello studioso, del teorico della letteratura. E dio sa quanto bisogno avremmo di rinnovare una disciplina oggi così asfittica e velleitaria dopo i fasti dei decenni passati (Contini, Segre, Corti, Garboli ecc.).

Auguro a Di Paolo di far gridare tutti al capolavoro, ma gli consiglio di non abbandonare l'austera prosa, perché è in essa che si custodisce un tratto essenziale, forse il principale, della sua personalità letteraria.

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