Cultura e Spettacoli

Pavone, lo storico di sinistra che scoprì la "guerra civile". Ma dopo Montanelli e Cervi

Il suo libro del 1991 fu fondamentale (pur con troppe omissioni) per riaprire il dibattito sulla Resistenza

Pavone, lo storico di sinistra che scoprì la "guerra civile". Ma dopo Montanelli e Cervi

È trascorso esattamente un quarto di secolo da quando, nel settembre del 1991, apparve in libreria il ponderoso lavoro di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza. L'opera ebbe un immediato successo e finì, subito, al centro di un vasto e articolato dibattito storiografico per il fatto che introduceva in un certo senso come concetto storiografico neutro la locuzione «guerra civile». Pavone, scomparso ieri a Roma all'età di 96 anni, era uno studioso di formazione marxista, ben conosciuto per la sua attività di archivista e ricercatore, ed era stato anche attivo nel movimento partigiano. Già qualche tempo prima della pubblicazione di quel suo celebre volume aveva sollevato il problema di sdoganare la categoria interpretativa di «guerra civile» utilizzata largamente, sino ad allora, quasi soltanto dalla letteratura neofascista, anche se, ad onor del vero, al di fuori delle sacche del «nostalgismo», già nel 1983 Indro Montanelli e Mario Cervi avevano intitolato proprio L'Italia della guerra civile un loro volume della fortunata serie dedicata alla storia d'Italia.

La verità è che l'ortodossia resistenziale si rifiutava, al netto delle giustificazioni morali o politiche, di concepire l'idea stessa che i fascisti potessero essere considerati «uomini» come gli altri impegnati a combattere una guerra. Vi ostava l'idea che i fascisti, durante i sanguinosi anni di guerra civile, avessero considerato «antinazionali» e «traditori» i loro avversari e, ancora, vi ostava il fatto che, in nome dell'«unità della Resistenza» a guida comunista, essi fossero percepiti come un elemento da espellere dalla considerazione storica. Bisognava negare ai fascisti, proprio in virtù dell'oblio del concetto di guerra civile, qualsiasi forma di possibile legittimazione come forza nazionale. Si trattava di una scelta, del resto, coerente con il progetto togliattiano di conquista della società civile e politica.

Il volume di Claudio Pavone, nato da un suggerimento di Ferruccio Parri, aveva avuto, dunque, una lunga gestazione ed era apparso subito come profondamente innovativo rispetto alla lettura tradizionale della Resistenza. Esso partiva dalla distinzione fra «una Resistenza in senso proprio e forte, quella combattuta nel Nord, politicamente e militarmente, da una cospicua minoranza», e «una Resistenza in senso ampio e traslato» che era venuta «man mano assumendo anche per chi non vi aveva partecipato o aveva cercato di circoscriverne, manometterne o emarginarne la memoria un ruolo di legittimazione dell'intero sistema politico repubblicano e della sua classe dirigente». Le vicende succedutesi nell'Italia repubblicana dall'espulsione delle sinistre dal governo all'indomani dell'esperienza ciellenista fino al progetto di «arco costituzionale» come riedizione del Cln avevano finito per mettere in crisi, mostrandone tutta l'inadeguatezza, una lettura «monocorde» della Resistenza. E, quali che ne fossero le presse e i risultati, lo studio di Pavone finiva per muoversi in una prospettiva di tipo revisionistico.

Secondo lo studioso, nel periodo compreso fra l'armistizio dell'8 settembre 1943 e il 2 maggio 1945 furono combattute tre guerre: una guerra di liberazione nazionale o guerra patriottica, una guerra civile e una guerra di classe. La prima fu diretta contro lo «straniero», segnatamente i «nazisti» con una precisa connotazione politico-ideologica; la seconda si manifestò attraverso la contrapposizione dei partigiani ai fascisti e fu di tipo volontaristico e ideologico; mentre la terza riguardò il carattere di lotta al fascismo come lotta del proletariato contro il padronato propria delle frange comuniste della Resistenza con caratteristiche o suggestioni di tipo insurrezionale di massa.

L'impatto del saggio di Pavone sulla storiografia fu enorme. La legittimazione del concetto di «guerra civile» fu accettata, per esempio, da Norberto Bobbio e da Vittorio Foa, che, senza mezze parole, dichiarò di essere sempre stato «irritato» di fronte a chi «negava il carattere di guerra civile alla lotta partigiana». La rifiutò, invece, un cattolico come Sergio Cotta, il quale, anzi, rigettò anche la «tripartizione» della Resistenza in tre guerre combattute su «fronti» diversi sostenendo, invece, che la Resistenza fu un'unica, grande guerra.

Comunque sia, l'opera di Claudio Pavone segnò davvero un passo avanti nella ricerca storiografica e inaugurò una nuova stagione di riflessione e di studi. Anche se, va pur detto, in termini di contenuto, essa non si distaccò troppo dalla vulgata tradizionale della sinistra culturale allora egemone nel Paese. Per esempio, il contributo alla lotta di liberazione dei militari italiani che si trovavano all'estero al momento dell'armistizio si pensi all'eccidio di Cefalonia è stato completamente sottovalutato. Non solo. Il massacro di Porzus, dove i partigiani della Brigata Osoppo furono trucidati da partigiani comunisti, è liquidato in sei righe. E, ancora, viene citata una sola volta la figura di Alfredo Pizzoni, presidente del Clnai e capo della Resistenza ma che, troppo liberale e troppo patriota filo-inglese, venne messo alla porta e sostituito dal socialista Rodolfo Morandi, gradito ai comunisti. E sporadici sono i riferimenti, soltanto cinque, all'eroe della Resistenza Edgardo Sogno. Si potrebbe proseguire.

Ma non vale la pena.

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