Cultura e Spettacoli

La piccola grande Fracci tra divi e divine alla Scala

L'adolescenza a teatro, gli incontri magici e i trionfi mondiali. Ecco come cominciò l'incredibile carriera del mito della danza

La piccola grande Fracci tra divi e divine alla Scala

Per gentile concessione dell’editore, pubblichia­mo uno stralcio di Passo dopo passo. La mia storia, autobiografia di Carla Fracci (a cura di Enrico Ro­telli, pagg. 216, euro 18; in libreria da domani). Carla Fracci racconta l’ingresso alla Scala, i grandi incon­tri, i trionfi con l’Ameri­can Ballet Theatre e sui pal­coscenici più importanti del mondo.

Nel pieno dell'adolescenza, mi affacciavo con le mie compagne dal sesto ordine di galleria e, incantata, ascoltavo Gino Bechi, Giuseppe Taddei, Maria Caniglia, Fedora Barbieri, Licia Albanese e Mariano Stabile modulare le loro voci irripetibili. Partecipai ai cori dei bambini nelle opere con Mafalda Favero, Renata Tebaldi e Margherita Carosio, figurai in Carmen e nella Bohème tra quelli che girano veloci gridando: «Viva Parpignol!». Ebbi il privilegio raro di osservare da vicino il lavoro di serge Lifar, coreografo instancabile; di Pablo Picasso, genio onnivoro e traboccante ispirato da alcune vedute di Napoli e Pompei per le scenografie di Pulcinella e Il cappello a tre punte; di Léonide Massine, mio grande angelo protettore che portò in scena La sagra della primavera di Stravinskij, opera all'epoca ancora troppo all'avanguardia per il pubblico scaligero, sebbene fossero passati quattro decenni dalla prima esecuzione parigina. E di Giulietta Simionato, Carlo Maria Giulini, Franco Zeffirelli e L'Italiana in Algeri piena di vita di Gioachino Rossini. La mia primissima esperienza di palcoscenico fu nella danza dei moretti dell'Aida di Giuseppe Verdi con Renata Tebaldi, giovane, brava e bellissima nonostante fosse tinta così malamente da sembrare più un cioccolatino che una principessa etiope... un'inarrivabile ragazzona definita «voce d'angelo» da Arturo Toscanini, un incanto, un'interprete di bravura superiore a ogni immaginazione; la guardavo con gli occhi sgranati. Nessuna ha mai raggiunto la sua purezza nell'attacco di «o cieli azzurri», neppure la miracolosa estensione di gola di Maria Meneghini Callas che debuttò alla Scala proprio in quell'allestimento come sua sostituta, lasciando noi moretti e il pubblico a bocca aperta. «La Maria», come presto tutti in teatro imparammo a chiamarla, inaugurò la stagione 1951-1952 con il nuovo allestimento de I Vespri siciliani di Giuseppe Verdi. Una settimana dopo Tristan und Isolde con Max Lorenz e Gertrude Grob-Prandl e a dicembre la prima Giselle della mia vita della cui interprete rimasi folgorata all'istante: Yvette Chauviré. Se Margot Fonteyn è la mia madre spirituale, Yvette è mia zia. Nel giorno di Sant'Ambrogio dell'anno successivo, Victor de Sabata tornò a dirigere Maria in Macbeth, opera dimenticata dai tempi dell'iniziale successo al Teatro della Pergola di Firenze e nel cui quadro di danze degli «spiriti dell'aria» io ebbi una breve apparizione. Dovetti aspettare il Palazzo di Cristallo di Georges Bizet per avere un piccolo ruolo di solista nel terzo movimento, scelta, dopo aver ricevuto il consenso della direttrice, da George Balanchine in persona, l'uomo giudicato universalmente il più esigente per le coreografie impervie dei suoi balletti. Intanto guardavo le prime ballerine della Scala con genuina ammirazione e desiderio di accostarmi alla loro grandezza. Nello stesso periodo in cui Ingrid Bergman fu Giovanna d'arco con le parole di Paul Claudel e la sua voce arcana, Luchino Visconti mi scelse come sostituta per la parte di Silvestra in Mario e il mago, una novità musicale di Franco Mannino per la coreografia di Léonide Massine. Ero seduta sul pavimento della sala Trieste con le altre ragazze del corpo di ballo e indossavo un paio di calzerotti rossi; Lila de Nobili, magnifica costumista, si girò e disse: «Luchino, non potrebbe essere questa qua la ragazza per la parte di Silvestra?». Tra gli assistenti di regia c'era un giovane fiorentino piuttosto belloccio di nome Giuseppe Menegatti, Beppe, che presto cominciò a invitarmi alle cene che venivano organizzate nelle case eleganti di Milano. Non sono mai stata una persona mondana, ma non nego che mi facesse piacere conoscere persone colte ed essere accolta negli appartamenti più esclusivi della città. Cora Mazzoni, della famiglia Durini, aveva la generosità di invitare noi giovani artisti della scala a cena o a pranzo. Milano era una città generosa e ospitale. Ci vivevano un mucchio di persone davvero fantastiche. Ilaria Occhini, donna molto bella ancora oggi, e la Biki, nipote di Puccini, che divenne un'amica vera. Abitava in via sant'andrea, era simpaticissima e tutti la indicavano come la famosa sarta col turbante autrice della metamorfosi in «divina» di Maria Callas. Aveva un atelier dove confezionava abiti per le signore dell'alta società. Minuta e imperiosa, sarcastica e inguaribilmente romantica, Elvira Leonardi Bouyeure, Biki per gli amici da quando Giacomo Puccini l'aveva soprannominata «Bicchi» da «birichina», era un nome immenso nella Milano degli anni Cinquanta: Gabriele d'Annunzio le aveva dedicato alcuni versi e Vogue america un servizio. Conobbi Giorgio de Chirico, Salvatore Quasimodo e la sera tornavo felice dai genitori in un appartamento di tre stanze di una casa popolare di via delle Forze armate, dove nel frattempo ci eravamo trasferiti.

© 2013 Arnoldo Mondadori Editore s.p.

a., Milano

Commenti