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Quando Cesare Lombroso andava a caccia di "criminaloidi" nella Rivoluzione Francese

L'antropologo indagava sul punto di equilibrio tra politica e violenza di massa

Quando Cesare Lombroso andava a caccia di "criminaloidi" nella Rivoluzione Francese

In qualità di antropologo e criminologo, Cesare Lombroso non poté non calcare il terreno della politica. Dunque, non poté non affrontare anche il tema della rivoluzione. Lo fece prendendo di petto la regina delle rivoluzioni moderne, quella francese, in una conferenza del 1886 alla Biblioteca Laurenziana di Firenze. Il titolo: La delinquenza nella rivoluzione francese (Aragno, pagg. 71, euro 12). Lecito aspettarsi, da un antropologo e criminologo, la sottolineatura dell'esplosione di violenza pubblica e privata. Ma abbiamo anche altro. Leggiamo: «Il delitto politico ha la sua base nel ribrezzo naturale nell'uomo per ogni novazione, sia essa politica, religiosa o artistica, talmenteché, ogni progresso diventa un fatto antisociale, quindi un delitto, quando urta troppo profondamente gli istinti conservatori delle masse».

Ecco il punto nodale, «gli istinti conservatori delle masse». «Conservatori», non «rivoluzionari». Dunque per Lombroso, se è vero che i rivoluzionari compiono delitti politici, è anche vero che i conservatori, quando esagerano nell'opporsi alla «novazione», non sono esenti da colpe. La parola chiave è dunque «misoneismo», ovvero l'odio per il nuovo. Parola che non sorprende, in bocca o nella penna di Lombroso, il quale politicamente parlando era molto meno tranchant che da scienziato, attestandosi sulle posizioni del socialismo conservatore... Infatti afferma: «Abbiamo oggidì, si dice, la libertà, la giustizia per tutti; ma in fondo i privilegi non fecero che cambiare da una all'altra casta; non sono più i sacerdoti ed i nobili, ma pochi avvocati politicanti che predominano ed al cui vantaggio lavorano tutti - senza o quasi senza compenso - gli onesti ed i disonesti».

Prima di sciorinare alla sua maniera la galleria di «uomini delinquenti» in azione nel 1789 e dintorni, i vari Jourdan, Carrier, Marat, Legendel, Roussignol..., e di fare un rapido excursus storico-geografico fra differenti scenari di sollevazioni rivoluzionarie nel mondo, Lombroso distingue «tra le rivoluzioni propriamente dette che sono effetto lento, preparato, necessario, al più reso di un poco più rapido da qualche genio nevrotico, o da qualche accidente storico, - e le rivolte o sedizioni, le quali sarebbero un'incubazione precipitosa, artificiale - a temperatura esagerata - di embrioni tratti perciò a certa morte». Il darwinismo dell'autore emerge da questo passaggio: «La rivoluzione è l'espressione storica della evoluzione: dato un assetto di popolo, di religione, di sistema scientifico, che non sia più corrispondente alle nuove condizioni, ai nuovi resultati politici, ecc., essa li cambia col minimo degli attriti e col massimo del successo, per cui le sommosse e le sedizioni che provoca, se pure ne sono una parte necessaria, sono appena avvertite e svampano appena comparse: è la rottura del guscio del pulcino maturo». Insomma, Parigi valeva bene un pulcino destinato a diventare galletto, ma la follia dei rivoluzionari, anzi dei sediziosi, lo ha fatto nascere morto prima del tempo. Perché «le riforme esagerate dell'89, improvvisate colle stragi e in mezzo alle stragi, dalla prepotenza di pochi, provocando una naturale reazione, per la stessa loro eccessività, impedirono quella evoluzione lenta e feconda che si andava manifestando in tutte le classi».

E se «la Repubblica non ebbe mai un capo se non in colui che la uccise: Napoleone», responsabile della tara che l'ha minata è un «delinquente e pazzo di genio, il Rousseau». In mano di quel «lipemaniaco» l'idea, in sé ottima, della «sovranità popolare» diventa un mito, una favola ingannatrice, uno specchietto per le allodole.

O per i pecoroni: «Così certo, le pecore, cadute nel baratro dietro al pastore, fino al momento in cui sentono il cranio frangersi sul duro fondo, opinano di andare per la via diritta».

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