Cultura e Spettacoli

"Quando scrivo un libro non so come finirà e non penso al lettore"

Gelosia, ossessioni, rivalità: ecco il nuovo romanzo del giovane autore svizzero di «Harry Quebert»

"Quando scrivo un libro non so come finirà e non penso al lettore"

Il protagonista è sempre Marcus Goldman, scrittore. Però non è più alle prese con La verità sul caso Harry Quebert (bestseller da tre milioni di copie), bensì con il suo passato, la sua famiglia, il suo grande amore perduto, i cugini ricchi e splendidi (i Goldman di Baltimore), i suoi genitori più «sfigati» (i Goldman di Montclair), e la tragedia che ha colpito il clan. Il libro dei Baltimore è il nuovo romanzo di Joël Dicker (lo pubblica La nave di Teseo). Lo scrittore svizzero è a Milano per presentarlo, appena arrivato da Ginevra, dove è nato nel 1985 (sì, ha solo 31 anni...).

Alla fine del romanzo, Marcus scrive che «tutto è riparato». I libri riparano la realtà?

«Può darsi. In questo caso però bisogna considerare tutto il resto del romanzo: Marcus usa l'arte per cercare di dare una sistemazione, un senso alla vita, al passato, a tutto ciò che credeva andasse sistemato. È quello che non solo i libri, ma tutta l'arte riesce a fare: riutilizzare la propria realtà, quello che ci rende felici o tristi, per qualcosa di diverso. Anche se non è un romanzo autobiografico».

Marcus è ossessionato dal passato, dalla verità.

«Però non è una ossessione dal punto di vista nostalgico, è per capire come siamo diventati quello che siamo, perché facciamo le cose e perché le facciamo in un certo modo. Attraverso questa ossessione del passato, Marcus sta cercando di capire se stesso».

Come Marcus, anche lei è ossessionato dalla scrittura?

«Non direi ossessione, è una parola che non mi piace».

Passione?

«Passione sì, mi piace di più. Per me è molto importante, quando lavoro a una storia, che la storia mi segua ovunque io vada e qualunque cosa faccia, perché vuol dire che sono davvero immerso nella storia stessa».

È piuttosto produttivo: ha scritto molti romanzi in pochissimi anni.

«In realtà sono uno scrittore molto lento: mi ci vuole un sacco di tempo per scrivere. È un processo molto lungo, fatto di scrittura e riscrittura delle stesse frasi. E mi piace che, alla fine, le persone dicano che i miei libri sono facili da leggere: io cerco di essere il più semplice possibile. Ma è difficile essere semplice».

Per scrivere Harry Quebert si era chiuso a casa di sua nonna. Lo ha fatto di nuovo?

«È vero, di solito andavo da mia nonna a scrivere, ma è morta due anni fa. La sua casa era in affitto. E allora mi sono chiesto: adesso dove vado a scrivere?».

Che cosa aveva di speciale la casa di sua nonna?

«Ci sono andato fin da quando ho iniziato a scrivere, intorno ai vent'anni: avevo provato in un caffè, ma non ci riuscivo. Avevo bisogno di uno spazio tutto mio, di un posto tranquillo. Da lei c'era questa stanza inutilizzata e così sono andato lì per quasi dieci anni: è stato il mio primo ufficio da scrittore. E mia nonna è stata la prima a prendere il mio lavoro di autore molto seriamente: non lasciava mai entrare nessuno, era severa».

Alla fine dove è andato?

«Ho provato a lavorare a casa mia, ma non riuscivo neanche lì. Quindi ho preso un piccolo ufficio a Ginevra, solo per scrivere. Ho bisogno di molta tranquillità, e poi ho quintali di appunti, scarabocchi, foglietti... Un caos».

E nel caos ha una routine?

«Sì. Il mio obiettivo è scrivere il più possibile, da sempre. Anche quando studiavo Legge, anche quando lavoravo come assistente al parlamento a Ginevra, cercavo di trovare il tempo per scrivere, ogni giorno, e cercavo di scrivere più che potevo. Inizio subito, al mattino presto».

Uno dei temi del romanzo è la gelosia, anche fra amici, fra Marcus e i cugini, fra i cugini stessi. Siamo tutti gelosi?

«Viviamo in un mondo in cui passiamo molto tempo a ostentare quello che siamo e abbiamo, e a cercare di ottenere l'approvazione degli altri, anche se non li conosciamo. Ci affanniamo a ottenere like per una foto su Facebook».

Viviamo sempre in un confronto con gli altri?

«È tutto un confronto fra come è la mia vita e come è quella del mio vicino. Ma la questione vera è fra me e me: la persona di cui sono geloso è lo specchio di quello che non sono, che non ho o che avrei voluto essere, o avere. Quindi interrogarci sulla nostra gelosia è un modo per riflettere su noi stessi e mettere in discussione quello che abbiamo raggiunto».

È una trilogia?

«Non lo so. L'ho accennato quando mi chiedevano perché avessi ambientato il mio romanzo negli Stati Uniti. Il fatto è che con Harry Quebert, che è il mio primo vero romanzo, dopo cinque che erano stati rifiutati, avevo deciso che per me sarebbe stato un bene scrivere un paio di libri ambientati fuori dall'Europa; e Il libro dei Baltimore era parte di questo piano, anche se non potevo aspettarmi tutto il successo che è arrivato».

E dopo il successo?

«Ne sono stato molto felice, ovviamente, e ho accennato alla trilogia. Ma non lo so, perché in realtà non so mai davvero a che cosa sto lavorando fino a che non è pubblicato. Ed è anche quello che mi piace del mio lavoro: non ho piani, non so come finirà un mio romanzo fino a che non l'ho finito, tutte le strade sono aperte».

Non sa come va a finire?

«Esatto. Del resto io amo leggere un libro perché mi piace l'atmosfera, certo, ma anche perché voglio sapere quello che succede: se lo so già, perché leggerlo? E così è anche quando scrivo. Non ho un piano, tutto può cambiare. Ed è per questo che non parlo mai di quello che faccio, e che parlo di un mio libro solo dopo che l'ho scritto: non so mai se lo finirò davvero...»

Quindi la suspense per cui è tanto famoso è casuale?

«Non è pianificata. Ogni capitolo è situato in anni diversi, lontani fra loro, perché scrivo così: faccio un salto indietro nel tempo per scoprire che cosa è successo, poi torno in avanti e racconto quello che è successo dopo. Alla fine di ogni capitolo non so che cosa succederà dopo. Ma intanto i vari capitoli, i vari momenti del tempo, mi frullano in testa».

Ama il lieto fine?

«Più che lieto, direi speranzoso. Mi piace che, quando un romanzo finisce, ci sia una nota di speranza, che tutto si possa sistemare, che le persone possano tornare insieme, che non vada per forza tutto a rotoli».

Qual è il suo obiettivo quando scrive?

«Il piacere. Quello che faccio è, per me, una vera fonte di piacere. Non so mai se alle persone piacerà, visto oltretutto che c'è un sacco di roba che ho scritto e nessuno ha mai letto... Perciò la cosa più importante è godermi quello che faccio».

E nei confronti del lettore qual è l'obiettivo?

«Non penso al lettore. Spero che gli piaccia, e sono molto felice se c'è qualcuno che mi legge e apprezza quello che scrivo.

Ma non lo faccio per il lettore».

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