Cultura e Spettacoli

Quell'ossessione di Accorsi per Berlusconi nella serie tv 1992

Nessuna sorpresa: più che degli scandali per le tangenti prese dai partiti si continua a parlare del progetto politico del Cavaliere

Stefano Accorsi interpreta Leonardo Notte
Stefano Accorsi interpreta Leonardo Notte

Alla fine il cerchio si chiude. "Fozza Itaja", si legge in un cartellone in piazza Duomo, a Milano. La scritta compare accanto al volto di un bambino molto piccolo. Un cartellone misterioso, nessuno ne capisce il senso, ma un senso c'è eccome. Finisce così l'ultima puntata di 1992, la serie tv su Mani pulite trasmessa da Sky. Finisce com'era iniziata, con un chiaro ed esplicito rimando a Berlusconi. La tesi, ripetuta con ossessione, è che l'idea di impegnarsi direttamente in politica Berlusconi ce l'avesse da tempo, quando ancora i partiti della Prima Repubblica erano vivi e vegeti, anche se cominciavano a scricchiolare. Poi arriva l'inchiesta su Mani pulite e da lì, piano piano, si fa strada l'idea di dare vita a un "contenitore nuovo", un soggetto politico da vendere come un prodotto qualunque, grazie alla pubblicità.

"Sarà un magnifico 1993", dice Leonardo Notte (Stefano Accorsi) guardando quel cartellone in piazza Duomo. Pregusta la sua vittoria per essere riuscito, dopo non pochi sforzi, a convincere Berlusconi a occuparsi in prima persona di politica. Dopo essere stato licenziato (per la seconda volta) da Dell'Utri, che non gli perdona di aver fatto di testa sua, continuando a lavorare nel centro studi di Publitalia per portare avanti il suo disegno, Notte alla fine si riscatta. La sua scelta visionaria ha fatto breccia nel Cavaliere. Da lì a poco nascerà un nuovo partito e niente sarà come prima.

Ampio spazio, nelle ultime due puntate della serie, viene dedicato a Bettino Craxi. Fin dall'inizio per Di Pietro è un'ossessione. Vuole arrivare a lui, già quando scattano le manette per il "mariuolo" Mario Chiesa. L'inchiesta va avanti, tra imprenditori che fanno la fila per confessare, politici di primo e secondo piano che finiscono nei guai e il tam-tam mediatico che, incessante, fa la propria parte convincendo tutti che è in corso una rivoluzione. A un certo punto, però, succede un imprevisto: l'improvvisa morte di Vincenzo Balzamo, il tesoriere del Psi, si porta nella tomba tutti i segreti relativi al finanziamento illecito del suo partito. Un duro colpo per Di Pietro che non se ne dà pace. Con uno stratagemma architettato da uno dei suoi assistenti, il poliziotto Luca Pastore (Domenico Diele), la procura fa credere all'ex segretario del Psi, Giacomo Mancini, che anche lui sarebbe indagato. L'esca viene confezionata con un articolo di giornale, sparato in prima pagina dal Corriere, che nasce da una soffiata (senza fondamento) fatta da Pastore a una sua amica giornalista. Interessante, in tal senso, la "commistione" giornalista-procura. Mancini abbocca e chiede di parlare davanti ai pm. Incalzato da Di Pietro vuota il sacco e dice che Craxi "non poteva non sapere". Da questo assunto, che diventerà l'architrave dei processi nei confronti del leader del Psi, riparte l'inchiesta, con il primo avviso di garanzia a Craxi e la scena, imbarazzante, dei pm che festeggiano stappando lo spumante nelle stanze della procura.

C'è poca politica in questa serie, dicevamo dopo aver visto la prima puntata. Lo confermiamo dopo aver seguito l'ultima. Non ci aspettavamo un documentario, questo no. Non avrebbe avuto senso: una serie tv giocoforza deve mescolare realtà a fantasia. Ma sarebbe stato utile qualche elemento in più, nella sceneggiatura, per rendere, almeno in parte, la complessità del periodo storico. In House of Cards, tanto per citare una serie che si è occupata di politica, gli autori hanno fatto fare le peggiori cose a un presidente degli Stati Uniti. Ma lì era tutta finzione. Qui c'era un po' di finzione e tanta realtà. Forse il problema era proprio questo. A Stefano Accorsi, ideatore della serie, probabilmente è mancato un po' di coraggio. Si è accontentato di seguire il suo chiodo fisso, Berlusconi, finendo col mettere tutto il resto in secondo piano.

Persino un aspetto di certo non secondario come il disfacimento di una classe politica che aveva governato il Paese per cinquant'anni.

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