Cultura e Spettacoli

“Elegia americana” di Ron Howard, dramma annacquato salvato dalla Close e dalla Adams

Storia di un ragazzino del Kentucky che, emancipatosi da una famiglia disfunzionale, diventa studente a Yale. Un film che senza le performance delle attrici principali passerebbe inosservato

“Elegia americana” di Ron Howard, dramma annacquato salvato dalla Close e dalla Adams

Elegia americana, il nuovo film Netflix Original, esce oggi sull’omonima piattaforma e ha tutte le luci puntate su di sé. Il motivo è evidente, trattandosi dell’ultima fatica di Ron Howard, un regista che non ha bisogno di presentazioni, e di un’opera che vede giganteggiare due star della recitazione del calibro di Glenn Close e Amy Adams. Il film, inoltre, è l’adattamento cinematografico di quello che è stato un best-seller assoluto oltreoceano, il libro di memorie di JD Vance, "Hillbilly Elegy", in cui molti hanno visto un’analisi dell’elettorato che portò Trump alla Casa Bianca.

Inevitabile che tali premesse generino alte aspettative, meno scontato, invece, che la visione di “Elegia americana” vada a disattenderle quasi tutte. Nella pellicola da 45 milioni di dollari, infatti, Howard si concentra sui vincoli, soprattutto psicologici, che derivano dai legali familiari, accantonando completamente l’indagine sull’anima dell’America più profonda, quella rurale e operaia, che aveva dato lustro al libro. Ci si trova a osservare, tramite flashback continui, gli accadimenti principali di una storia familiare spalmata su tre generazioni, ma senza cogliere granché l’humus da cui originano.

Nato in Kentucky e cresciuto a Middletown, in Ohio, J.D. (Owen Asztalos da adolescente e Gabriel Basso da adulto) ha una vita familiare turbolenta da cui si emancipa divenendo prima un marine e poi uno studente di giurisprudenza a Yale. A caccia del lavoro dei propri sogni, proprio nei giorni in cui ha colloqui per entrare, da tirocinante, presso un prestigioso studio legale americano, è chiamato al capezzale della madre (Amy Adams), ricoverata per overdose d’eroina. Significherà per lui fare ritorno nella cittadina della sua travagliata crescita e trovarsi di nuovo di fronte a quanto di problematico si è lasciato alle spalle.

”Elegia americana” è un viaggio nei ricordi, il ricongiungimento con radici che affondano in un terreno fatto di povertà e disillusione.

Quello del protagonista è un passato piagato dalla presenza di figure femminili problematiche: la madre, prigioniera di relazioni sbagliate e dipendenza da droghe, ha sprecato brillanti doti intellettive seguendo la propria vocazione all’autosabotaggio; altrettanto atipica, ma salvifica, la nonna (Glenn Close), sboccata fumatrice dall’andatura zoppa e dallo spirito indomito.

Il degrado di anni caratterizzati da abusi domestici ha segnato ogni personaggio in modo diverso. Bypassare però il complesso ritratto della terra cui queste persone appartengono, una delle zone più in declino e culturalmente arretrate degli States, significa metterle in scena senza un contesto che permetta di capirle davvero e, quindi, di far scattare l’empatia e il coinvolgimento.

Altro problema fondamentale è che il protagonista del racconto, il cui punto di vista diventa quello dello spettatore, nel suo cammino di riscatto sia poco tratteggiato. Impotente di fronte alle intemperanze materne, strappato alle cattive compagnie e convertito alla retta via dall’unica figura che nel film crede ancora nel sogno americano, la nonna, non dà vero accesso alla propria interiorità. Resta sempre incolore, sebbene sia di fatto il portabandiera di messaggi non da poco: andare fieri, nonostante tutto, del background da cui si proviene, perdonare le inadeguatezze genitoriali e lasciare che le nostre origini siano il motore propulsore del cammino ma non lo condizionino o definiscano.

Il fatto è che uscire dal pantano delle difficoltà è il percorso umano comune ai più, perciò, perché sia appetibile su schermo, c’è bisogno di una visuale che non sia di superficie. “Elegia americana”, invece, malgrado la rilevanza delle performance attoriali di Glenn Close e Amy Adams, è tra i film meno incisivi di Howard.

Tocca tanti temi, anche quello del mal funzionamento del sistema sanitario statunitense, senza approfondirne alcuno. Vorrebbe essere un dramma di prestigio, ma non va oltre il racconto di sopravvivenza artificioso e impacciato, diventando una mera vetrina per attori a caccia di premi.

Sui titoli di coda, le immagini e i destini dei protagonisti reali sono una chiosa dall’effetto inusitato: altrove avrebbero fatto da detonatore alla commozione, qui danno invece il colpo di grazia al poco charme dell’ensemble.

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