Cultura e Spettacoli

Rovine e ritorni. Quel che resta dell'Italia in via d'abbandono

Sulle tracce dei paesi vuoti: dalle Alpi alla Calabria, passando per Amatrice

Rovine e ritorni. Quel che resta dell'Italia in via d'abbandono

Che cosa rimane, quando ogni cosa svanisce? Ci sono luoghi, in Italia, che ogni anno si trasformano in non-luoghi: paesi piccoli e meno piccoli che si vanno «svacantando». Si svuotano. Al posto dei paesi case disabitate, finestre alle quali nessuno si affaccia, balconi inutili, porte sempre chiuse, saracinesche abbassate, uffici pubblici smantellati, stazioni deserte. Sono soprattutto le aree interne a spopolarsi: un fenomeno che, secondo un rapporto di Commissione europea e Legambiente, nel 2006 colpiva un comune italiano su due. Succede dal Piemonte alla Campania, dalla Lombardia alla Sicilia. Succede nella Calabria di Vito Teti, professore di Antropologia culturale all'Università della Calabria che di questi paesini è un narratore appassionato: «Il fatto che non ci sia nessuno ad abitarli, o quasi nessuno, non significa che non vi accada niente. O che ci sia poco da raccontare». Così spiega all'inizio del suo libro, Quel che resta. L'Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (Donzelli, pagg. 308, euro 30); e «quel che resta» è appunto il compito da affrontare: «L'assenza e il vuoto sono pieni di segni e di tracce, che vanno decifrati e interpretati caso per caso».

«Ho cominciato a raccogliere memorie di luoghi abbandonati, in via di abbandono, a rischio spopolamento e svuotamento quaranta anni fa» scrive Teti. Luoghi soprattutto della sua Calabria: Africo vecchio (con il suo «doppio» lungo la costa), Cerenzia, Nicastrello, Brancaleone superiore, Corazzo con la sua abbazia millenaria, Precacore, Fantino, Pentedattilo, e poi le decine di frazioni di Scigliano, dove le monache di clausura, le clarisse, hanno riaperto il monastero di Santa Maria delle Grazie... Ma la sua interpretazione lascia poco spazio alla nostalgia intesa come «esotismo» o «lacrimevole archeologia del presente», o ad atteggiamenti di tipo «folcloristico», «passatista» o «lamentoso»: «I paesi non hanno bisogno di celebrazione, ma di attenzione, devono essere visti con la loro forza e la loro ombra». Teti parla di riscatto: «Non mi riferisco a una storia di ruderi e di rovine da inserire in itinerari turistici o in parchi archeologici o letterari o da trasformare in case albergo. Non si invoca la restaurazione di un mondo perduto (...), si vuole affermare, oltre che il diritto alla memoria, un diverso modello di sviluppo». Cita le parole di Giancarlo Bregantini, vescovo di Locri-Gerace e poi di Campobasso-Bojano: «Se la montagna è verde, il mare azzurro»; cioè sono le comunità dell'interno a proteggere boschi e acque, ad assicurare «il destino delle marine, delle pianure, del mare».

Mentre Teti scriveva il suo saggio, dopo mesi di resistenza in mezzo alle macerie crollava il campanile di Amatrice. Le immagini del paese distrutto, prima con il suo simbolo rimasto in piedi e poi senza, sono una sequenza angosciante, che però «chiede di essere guardata e riguardata»: «Le immagini delle rovine, le visioni dei vuoti, delle assenze, dei luoghi a cui è stata sottratta la vita sono immagini perturbanti di cui abbiamo bisogno». Perché? Perché la melanconia, spiega Teti, non è solo un topos esistenziale del Sud, è «la condizione dell'uomo moderno»; e «le rovine e il vuoto dei paesi abbandonati sono lo scenario nel quale la condizione melanconica sperimenta un'intensificazione e una forma peculiari». Quelle rovine sono la nostra civiltà, sono «parti costitutive del sentimento e del pensiero occidentale»: non solo il «Mediterraneo dell'interno» è a rischio di estinzione, ma «l'impasse entro cui si aggira e si smarrisce l'Occidente» è proprio quella fra «culto delle rovine del passato e creazione di moderne rovine». È il «senso del crollo», quello per cui le culture di paese non nascondevano la possibilità della fine del mondo, alla quale legavano anche le mitologie di rigenerazione.

I paesi-presepi sono finiti. Prima il loro era un mondo perfino «troppo pieno» (tuguri stipati da otto-dieci persone, più gli animali) dove si pativano le malattie, le alluvioni, le epidemie, le frane, la mancanza di acqua e di igiene, le difficoltà nei collegamenti e soprattutto la fame (ricorda Teti che i «prodotti tipici» non erano quelli che i contadini mangiavano, bensì quelli che speravano di mangiare...). Poi, da quel mondo, migliaia e migliaia di emigranti sono partiti verso l'America, per ricostruire i «doppi» dei loro villaggi e ritornare, costruendo rapporti e portando esperienze nuove; oppure verso la costa, per andare ad abitare in un altro «doppio» marino, di solito dopo una catastrofe naturale. Infine, quei paesi e i loro «doppi» sono diventati il mondo dell'abbandono: luoghi che non si riconoscono più, senza punti di riferimento, corpi-paese ormai smembrati. Eppure, da Nord a Sud, molte associazioni scommettono su questi luoghi, su un loro nuovo futuro e una nuova vocazione; paesi spopolati rimettono in relazione i propri abitanti grazie a siti e pagine Facebook; si moltiplicano le feste tra i ruderi e i paesi svuotati, che si vedono all'improvviso ripopolati e, nel silenzio, «riacquistano voce», perché «i luoghi continuano a vivere fino a quando ci sono persone a essi legate, da essi provenienti, fino a quando qualcuno, magari discendente dalle persone nate nei luoghi, ne avrà ricordo». Scrive una delle sorelle del monastero di Scigliano in una lettera allo stesso Teti: «Restare fa paura. Perché guardando i paesi disabitati, ci riscopriamo frammentati dentro».

Ma, proprio per questo, «è da lì che tutto può incominciare».

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