Cultura e Spettacoli

"Sì, Harry Clifton sono io, ma senza la voce d'angelo..."

L'autore inglese della saga spiega il suo rapporto con la scrittura. E in politica: "La Brexit? Grave errore"

"Sì, Harry Clifton sono io, ma senza la voce d'angelo..."

A quarant'anni dall'uscita di Caino e Abele, il romanzo che lo collocò stabilmente ai vertici delle classifiche internazionali e che ha venduto in totale cento milioni di copie, l'inglese Jeffrey Archer si gode il frutto dell'enorme successo, continuando a fare ciò che ancora gli dà soddisfazione: scrivere. Non pago della «Saga dei Clifton» in 7 volumi - l'appetito viene spesso mangiando, considerato che nelle intenzioni sarebbe dovuta essere di soli 5 volumi - Archer si è accinto alla stesura di un'altra saga, prevista in 7 romanzi, con protagonista il personaggio di cui Harry Clifton scrive nei suoi bestseller: il detective William Warwick. «Me lo hanno chiesto insistentemente i lettori», dice Archer, senza celare la sua soddisfazione. D'altro canto, Amazon ha certificato che solo la J.K. Rowling di Harry Potter ha saputo fare meglio di lui in termini commerciali. Lo abbiamo raggiunto al telefono quando manca poco alla pubblicazione in Italia del terzo capitolo della «Saga dei Clifton», Un segreto ben custodito. La verve che lo ha sostenuto anche nei momenti meno luminosi della sua vita - costellata di scandali, trionfi, cadute e nuovi successi - non si è certo spenta.

Cosa spinge un autore di successo a imbarcarsi in una lunga saga?

«Direi l'età. A un certo punto della mia vita, mi sono detto: trovati qualcosa da fare, un impegno che ti stimoli e ti consenta di svegliarti al mattino con qualcosa di eccitante a cui pensare. Davvero, invecchiare mi ha fatto temere di rallentare troppo i ritmi vitali. Ecco, dunque, l'idea di una lunga saga, la cui accoglienza da parte del pubblico è andata al di là delle mie stesse aspettative».

Sembra ci sia tanto di lei nei personaggi di questa saga. È così?

«Maisie Clifton è certamente mia madre ed Emma Barrington è mia moglie. C'è qualcosa di me in Giles Barrington e tanto di me in Harry Clifton, anche se io non ho mai avuto la sua voce d'angelo. Mia moglie, invece, ha sempre cantato e lo fa tuttora. Era in un coro scolastico prima di entrare a far parte di una corale barocca, imperniata sulla musica di Johan Sebastian Bach, a partire da un coro di Cambridge. Suggerisco sempre agli aspiranti scrittori di scrivere di persone, luoghi, situazioni a loro familiari. Se uno scrittore è a suo agio con ciò che scrive, lo sarò anche il lettore con ciò che legge».

Sembra che gli scrittori inglesi abbiano una propensione particolare alle storie che avanzano insieme al tempo...

«Sì, credo che noi inglesi abbiamo qualcosa che ci lega alle saghe. Mi viene in mente una delle più popolari del secolo scorso, quella dei Forsyte di John Galsworthy, pubblicata tra il 1906 e il 1921. Fu, già al tempo, un enorme successo e lo fu ancor più quando divenne una serie per la televisione a più riprese, fino alla miniserie britannica, con dieci episodi in due stagioni. Winston Graham, l'ideatore della saga dei Poldark, era un bravissimo autore che meriterebbe riconoscimenti di critica superiori a quelli che ha avuto. Ricordo di aver letto i suoi libri da ragazzino e di averli trovati splendidi. Non tutti sanno che ha anche scritto eccellenti thriller e che era un autore molto versatile».

Si sente un autore politico, considerato che la politica permea le sue storie?

«Per cinque anni sono stato membro della Camera dei Comuni e per ventisette della Camera dei Lord. Il richiamo, da autore, è stato irresistibile. Come avrei fatto a non approfittare dell'esperienza nell'arena politica? La cosa fondamentale, quando si inseriscono elementi politici nella narrativa, è non schierarsi mai in modo smaccato, non riversare platealmente nei propri personaggi le proprie convinzioni politiche. Il rischio di perdere lettori e, comunque, di non svolgere un buon lavoro è molto alto».

Solo il tempo lo dirà descrive il mondo a noi lontano del sistema scolastico inglese, soprattutto di quello delle scuole private. Le sembra che sia cambiato tanto nell'istruzione del suo Paese?

«Tanto è cambiato e tanto è rimasto com'era. Diversi governi si sono susseguiti e in molti casi hanno tentato di modificare il sistema. Capisco quanto sia diverso da quello di altri Paesi occidentali, Italia e Stati Uniti inclusi, e capisco che possa sembrare anacronistico. In parte, lo è. In realtà, però, è difficile da smantellare, perché ha sempre funzionato a funziona tuttora. Spero di essere riuscito a fornirne una descrizione illuminante con Solo il tempo lo dirà, il primo capitolo della Saga dei Clifton».

Se la sua saga l'avesse scritta nella Gran Bretagna post-Brexit, ne avrebbe parlato?

«La Saga dei Clifton ho iniziato a scriverla dieci anni fa, ben prima che l'idea stessa di un'uscita della Gran Bretagna dall'Europa fosse anche solo stata nell'aria. Se quella saga la scrivessi oggi, non potrei fare a meno di tener conto della Brexit. Non sarebbe la fine della saga, ma la permeerebbe costantemente. Personalmente, sono sempre stato un europeista e, non a caso, nel 1969 votai per l'ingresso della Gran Bretagna nell'Unione Europea. Pertanto, vedere il Paese votare in favore della Brexit è stata una grande delusione, ma la democrazia è fatta anche di queste cose e, per quanto sia stato difficile accettare l'esito di quel referendum, la mia filosofia di vita mi dice di farmene una ragione e di voltare pagina. D'altro canto, io sono figlio degli anni della Seconda guerra mondiale e il progetto Europa per me ha significato soprattutto creare le basi per una società umana che non fosse più travolta da un orrore come quello. In tal senso, almeno, sarebbe stato meglio che la Gran Bretagna fosse rimasta in Europa».

Cosa ha pensato quando il primo ministro Cameron indisse il referendum sulla Brexit, in realtà chiedendo un referendum su se stesso?

«Si è trattato di una decisione scellerata, di un grave errore. Non c'era davvero motivo perché David Cameron indicesse quel referendum. Al tempo stesso, però, l'Unione Europea non ha fatto granché per far sì che Cameron e la Gran Bretagna non lo indicessero e, soprattutto, non votassero in favore della Brexit. Dunque, credo che la colpa vada spartita fra Cameron, Juncker e altri».

Ci può spiegare perché la Gran Bretagna è ancora affezionata alla monarchia?

«La realtà è che la monarchia in Gran Bretagna funziona e funziona meglio di come funzionerebbe una repubblica presidenziale. Soprattutto, costa meno. E, comunque, considerate certe figure politiche di riferimento, per esempio lo stesso Cameron, non una si avvicina seppur lontanamente all'alto profilo morale della attuale regina».

Pensa che, dopo la Brexit, gli autori stranieri saranno percepiti in modo diverso in Gran Bretagna e viceversa?

«La risposta è due volte no. Io continuo ad apprezzare i libri di Elena Ferrante e non smetterò mai di essere un appassionato di romanzi come Il Conte di Montecristo di Dumas. Non cambierà nulla.

I libri continueranno a essere letti ovunque indipendentemente dalla loro provenienza, purché, naturalmente, siano di qualità».

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