Cultura e Spettacoli

Quel "salottino dei ricordi" in cui sedersi con Garibaldi

A Livorno la famiglia Sgarallino conserva un'enorme raccolta di cimeli delle Camicie rosse. Ma non può esporli

Quel "salottino dei ricordi" in cui sedersi con Garibaldi

Per gli appassionati di storia garibaldina questa vicenda, a molti sconosciuta, ha lo stesso valore della scoperta di una miniera di diamanti. Le orme di questa storia conducono a Livorno, dove invece dei diamanti troviamo un giacimento sì, ma di migliaia di cimeli risorgimentali che richiamano all'eroe dei due mondi. Qui c'è una famiglia, gli Sgarallino (che affonda le radici a Livorno da oltre 4 secoli), che come scrive Rossana Ragionieri nel libro Garibaldi a Livorno. Quando gli Sgarallino vestivano la camicia rossa, «del garibaldinismo fece e fa ancora una ragione di vita».

I cimeli di quella famiglia sono oggi in mano a Michela Sgarallino, non una vecchietta sepolta dai ricordi come si potrebbe immaginare, ma bensì, una bella cinquantenne piena di energia. È lei che oggi custodisce con devozione e impegno quegli oggetti attaccati dalle tarme e dalle muffe, impolverati e ingialliti dal tempo, disposti su scaffali e teche di vetro, in quello che i suoi nonni chiamavano «il salottino dei ricordi», illuminato da una luce fioca che dà al luogo un'aria di sacralità. È lei che ha iniziato, non a caso con coraggio garibaldino, a ricostruire la propria storia, attraverso un lungo e faticoso lavoro di catalogazione e restauro.

Ma di che cosa si tratta? Bandiere, camicie rosse, divise, grembiuli massonici, squadre e compassi, decine di medaglie, ciondoli, pendenti, spille, anelli, posate, foto, epigrafi, lettere, libri, attestati, berretti garibaldini, il «bonetto» e la sciabola personale di Garibaldi, alcuni frammenti del suo poncho e persino una pepita d'oro californiana. La Soprintendenza archivistica e bibliografica della Toscana e l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano hanno riconosciuto la collezione come «la maggiore raccolta museale garibaldina della Toscana e la più numerosa in Italia». «Si tratta di circa duemila oggetti tramandati di generazione in generazione con religiosa cura e dovuto rispetto - racconta Michela Sgarallino - Quelli erano degli eroi! Non saprei come altro definire delle persone che hanno lasciato casa, moglie e figli per andare a combattere in nome di un'ideale: quello della libertà dei popoli. Sono cimeli appartenuti sia agli Sgarallino che ai Garibaldi perché ci sono lettere e foto anche dei figli e della moglie di Giuseppe Garibaldi, ma 200 sono lettere a sua firma autografa. Alcuni sono stati donati agli Sgarallino da Garibaldi e a me consegnati da zia Giuseppina, la sorella di mio padre Lincoln, che mi ha passato il testimone. Difficile dire a quale cimelio sono più affezionata, anzi, direi che è impossibile. Hanno tutti un valore affettivo. Il Tricolore del 1848 che ha sventolato a Curtatone e Montanara e che poi ha preso parte a tutte le successive campagne di guerra, però, è forse il cimelio più rappresentativo della mia collezione, perché è il simbolo dell'Italia e degli ideali per i quali combattevano».

Gli Sgarallino erano una famiglia di navicellai. Il padre Demetrio e la madre Maria Luisa avevano avuto nove figli, ma la maggior parte di loro morirono ancora in fasce. Solo quattro riuscirono a crescere: una femmina e i tre maschi Andrea, Iacopo e Pasquale, tutti compagni di battaglia (ma ancor più amici fraterni) di Garibaldi. «Credo che il loro primo incontro sia avvenuto nel 1848 durante il primo soggiorno di Garibaldi a Livorno - dice Michela -. Con il passare degli anni è nata una profonda amicizia tra le due famiglie, tanto che Andrea è stato il testimone di nozze di Garibaldi e suo fedele accompagnatore in giro per l'Italia e Garibaldi padrino di uno dei figli di Andrea, a cui misero il nome di Nullo Giuseppe Garibaldi Sgarallino. Garibaldi ha anche dormito a casa dei miei antenati quando aiutarono il Generale a fuggire da Caprera nel 1867».

Andrea, il più grande e riflessivo dei tre, fu quello che ottenne i maggiori successi, arrivando fino al grado di colonnello nell'esercito garibaldino. Garibaldi gli propose persino di candidarsi in Parlamento, ma lui preferì il vecchio mestiere di navicellaio. Iacopo, invece, era uomo d'azione: non era sposato e non aveva figli, per questo combatté più a lungo e in diverse zone del mondo: Crimea, Polonia, Grecia, Serbia-Erzegovina. Nel 1848 Andrea partecipò alla campagna di Lombardia con i volontari toscani, guadagnandosi una medaglia al valor militare nella battaglia di Montanara, dove recuperò la bandiera del battaglione caduta in mano nemica. Nel '49, al comando dei Bersaglieri della Morte, si distinse nella difesa di Livorno dagli austriaci. Caduta la città, fu costretto a fuggire dall'Italia e se ne andò in America, passando anche per la California, dove partecipò alla «corsa all'oro».

«Tornò in Italia nel'59, con qualche pepita e la cittadinanza statunitense - racconta Michela -, giusto in tempo per prendere parte alle fasi finali della guerra di indipendenza e con in tasca i soldi da consegnare a Garibaldi, raccolti tra gli italiani in California, per finanziare la spedizione dei Mille. Io discendo direttamente da Andrea, era il mio trisavolo. Assomigliava molto a Garibaldi: stessa barba, stessi colori e anche stessa zoppia alla gamba destra causata da una ferita a Caserta. Per questo alcuni sostengono che Andrea Sgarallino alcune volte avesse fatto da sosia a Garibaldi per depistare le autorità. Uno dei suoi quattro figli si chiamava Lincoln, come mio padre, in onore del presidente americano, una tradizione di famiglia che abbiamo conservato per molto tempo».

Adesso quei cimeli sono lì, nel «salottino dei ricordi», in attesa di veder realizzato il suo sogno: «Aprire un museo privato». Ma le amministrazioni locali, passate e presenti, sembrano non essere interessate, per ignoranza o mancanza di fondi. «Veniamo quasi totalmente ignorati dalle istituzioni che si ricordano di noi solo quando hanno bisogno di qualche prestito. Ad agosto 2015 ho chiesto un incontro con l'attuale sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, ma a tutt'oggi non sono ancora stata ricevuta, né da lui né dall'assessore, ma solo dalla direttrice del Museo Fattori. Vorrei solo sapere se c'è la possibilità di avere uno spazio comunale a costo zero o a basso canone, per poter esporre». Ma per ora dal Comune nessuno batte un colpo. Dal punto di vista burocratico è probabile che ci saranno numerosi ostacoli, siamo in Italia, ma lo scoglio più grande sarà trovare i fondi. «Sto pensando ad una raccolta fondi con il crowdfunding.

Vorrei che il Museo Sgarallino sorgesse a Livorno nel quartiere della Venezia - conclude Michela - dove sono nati e hanno vissuto i miei antenati e tutti i garibaldini livornesi, il cuore pulsante della città di allora».

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