Cultura e Spettacoli

Seamus Heaney, poeta mite che ignorò la rabbia e l'Ira

Arriva il «Meridiano» con i migliori componimenti dell'autore irlandese. Raccontano un mondo bucolico

Seamus Heaney, poeta mite che ignorò la rabbia e l'Ira

Ho qui davanti il Meridiano dedicato al grande poeta irlandese, (Seamus Heaney, Poesie, Scelte e raccolte dall'autore, Mondadori, pagg. 1194, euro 80) e non posso fare a meno di soffermarmi sulla fotografia che compare sul cofanetto, con una certa ineliminabile commozione. Heaney ha i capelli bianchi e folti, una espressione in volto che non sai se è triste o assorta, una congenita aria da irlandese, proprio come lo conobbi tanti anni in fa in Svezia durante un festival di poesia. Solidarizzammo, noi che venivamo da Paesi non dominanti, contro il tono arrogante e ironico dei poeti americani invitati. Sua moglie Marie Devlin la sera cantò canzoni popolari irlandesi in gaelico.

Tutto questo stabilì un rapporto tra noi che non si è più cancellato. Heaney, nato in Irlanda del Nord nel 1939, veniva da una famiglia di contadini piccoli proprietari e cattolici. Visse una infanzia nei campi intorno alla fattoria di Mossbawn, i suoi primi eroi furono quelli della ricchissima mitologia irlandese, da Dagda a Cuchulain. Il primo libro che ebbe materialmente in mano fu un romanzo di Robert Louis Stevenson. Anche a me capitò così, era usuale in quegli anni. Studiò tra Derry e Belfast. Iniziò una carriera di professore e studioso che in seguito si è sviluppata tra le due sponde dell'Atlantico.

Tutta la sua biografia è quella di un letterato prestigioso, tra Oxford, Harvard e altre importanti università. Ma soprattutto Heaney pubblicò nel 1966 da Faber&Faber un libro intitolato Morte di un naturalista, da cui prese l'avvio la sua carriera di poeta con al suo attivo libri come Una porta sul buio, Nord, Station Island, Vedere cose, culminata nel premio Nobel del 1995. Il mondo della poesia di Heaney è un mondo in qualche modo arcaico e fuori dalla storia come quello contadino in cui si è formato. Il lettore ci trova le torbiere, i prati di erica, la pesca del salmone, i gabbiani, il mare sempre un po' lontano, le festività cattoliche come la Pasqua, il battesimo di Cristo, la crocifissione: ci trova il quotidiano, come i lavori dei campi, e il meraviglioso, come la visione della nave che apparve un giorno ai monaci in preghiera. Una poesia virgiliana (tra i testi che l'autore auto-antologizza c'è anche una egloga) che fa i conti con la tradizione irlandese e inglese ( Yeats e Wordsworth soprattutto, ed Eliot, naturalmente) senza mancare di allargare lo sguardo verso altre lingue e culture, come si vede dalla frequentazione intensa di Dante (magistralmente tradotto) e dal rapporto stretto con Milosz, il Nobel polacco.

La storia spargeva sangue in Irlanda, ma Heaney si aggrappava al suo mondo senza prendere posizione nella lotta terribile e sanguinaria tra i cattolici dell'Ira e gli Unionisti filo britannici. Il poeta era in vacanza in Francia e Spagna mentre si consumava nel carcere di Maze la tragedia dei dieci patrioti che morirono nello sciopero della fame iniziato da Bobby Sands per ottenere lo status di prigionieri politici, che il governo inglese negava loro. Anni dopo, Heaney immagina in una sua poesia di trovarsi in treno seduto davanti un uomo dell'Ira, che gli chiede a muso duro: «Quando cazzo scriverai qualcosa per noi?» Il poeta risponde: «Se scrivo qualcosa / qualunque cosa sia, la scriverò per me». Ed è fedele a questo proposito.

Nel 2006 Danny Morrison, portavoce del Sinn Fein, di cui l'Ira è il braccio armato, pubblica presso l'editore Brandon una antologia intitolata Hunger Strike, Sciopero della fame, dove figurano testi di Edna O'Brien, di Ken Loach, persino di chi scrive questo articolo: Heaney compare soltanto nell'introduzione dello stesso Danny Morrison, che nella polemica sul ruolo del poeta nei tragici avvenimenti che hanno insanguinato l'Irlanda cita due suoi versi di Station Island: «Perdona il modo con cui ho vissuto indifferente/perdona il mio timido, circospetto coinvolgimento». Tutte le volte che ho parlato con Heaney dell'Ira e di Bobby Sands, ho percepito perfettamente una reticenza quasi addolorata, un prudente ma non vile chiamarsi fuori.

In fondo, lo riconosco, era più facile per me che vivo in Riviera esaltare Bobby Sands (l'ho fatto in Canti d'Oriente e d'Occidente, il poemetto in memoriam del patriota irlandese è stato poi tradotto in gaelico da Padraig O' Snodaigh) che per lui, che aveva gli attentati e gli omicidi a due passi da casa. La grandezza di Seamus Heaney è nel suo scavare con la penna nel linguaggio come il padre e il nonno avevano scavato nei campi di patate e nelle torbiere, nel suo percorso di letterato puro, capace nei Sonetti di Glanmore, dalla metrica perfetta, di vedere in un sorbo una ragazza con il rossetto, di rivolgersi, come in Attraversamenti, all'anima che scorre e alla sua guida Ermes, e di sentire, come solo nel mito dell'Irlanda è possibile, la «musica di ciò che accade».

Capace, nei Sonetti dall'Ellade, di coniugare visioni di Sparta e di Pilo con la domestica gioia della retsina, dei calamari, degli involtini di vite.

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