Cultura e Spettacoli

Il segno di De Pisis, De Chirico e Savinio nei labirinti della "villa della metafisica"

Nel 1916, a Ferrara, il «marchesino pittore» conosce i due geniali fratelli

Il segno di De Pisis, De Chirico e Savinio nei labirinti della "villa della metafisica"

Per capire De Pisis, l'uomo e l'artista, bisogna partire da La granseola, che è un dipinto del 1931, e dal Ballo della granseola, che è invece una festa, finita con il pittore in galera, del 1945. Cominciamo dalla seconda, avvenuta nel suo palazzetto di Venezia all'indomani della fine della guerra. Cinti ai fianchi, a mo' di gonnellino, dai gusci dei granchi ottenuti dal vicino ristorante La Colomba, i corpi più belli degli invitati sarebbero stati acquarellati dal padrone di casa, ma qualcosa nella selezione dei «quadri viventi» andò male. Uno dei modelli, vistosi rifiutato, andò infatti alla locale sezione del Pci appena inaugurata con la democrazia: «Mentre le madri dei partigiani piangono i caduti di questa guerra, nello studio del pittore De Pisis questa sera si sta preparando una grande orgia», raccontò con lo sdegno di chi se ne sentiva ingiustamente escluso... Al tramonto, una squadra di partigiani armati si presentò all'appuntamento e arrestò tutti gli invitati che non riuscirono a scappare. C'era chi sul corpo aveva un paesaggio marino, chi un canale veneto, un fiore, un tatuaggi. Il variopinto corteo, più o meno sommariamente rivestito su ordine della pruderie comunista, sfilò sino alla questura di San Marco e al momento di declinare le generalità il questore si impuntò perché la carta d'identità che De Pisis era riuscito a prendere con sé portava il suo vero nome, Luigi Filippo Tibertelli: l'altro era un nome d'arte, un nom de plume, insomma uno pseudonimo, per quanto preso in prestito, fin da ragazzo, da un antenat. Sul tema si accese una discussione, cui l'artista pensò di porre fine facendo valere il peso delle sue conoscenze. Stia attento a quello che fa, disse più o meno al rappresentante del nuovo ordine costituito, questo suo intestardirsi rischia di costargli il posto: «Io - concluse con aristocratico sussiego - sono amico di Sua Eccellenza Bottai!».

A fascismo caduto De Pisis era sì riuscito a capire che la guerra era finita, tanto è vero che aveva pensato di festeggiare, a suo modo, l'avvenimento, ma non che Bottai non fosse più ministro dell'Educazione nazionale. In carcere ci rimase due giorni, così come i suoi sfortunati compagni del Ballo della granseola: il caldo primaverile rendeva il camerotto di sicurezza un forno e sul pavimento si allargavano chiazze di colore via via che dai corpi sudati la pittura si scioglieva. All'amico Giovanni Comisso, che racconterà tutta la storia in quel libretto meraviglioso che è Mio sodalizio con De Pisis, confessò che gli era sembrato «di vivere come a Parigi al tempo del Terrore».

Veniamo ora al dipinto in sé. È un olio che purtroppo viene esposto raramente, e infatti è assente nella pur ampia e bella personale che è in questi giorni al Museo del Novecento (Filippo De Pisis, a cura di Pier Giovanni Castagnoli, sino al primo marzo, poi, dal 20 marzo a Palazzo Altemps di Roma, catalogo Electa).

Mi sbaglierò, ma La granseola mi ha sempre dato l'impressione di un lancinante autoritratto, il carapace scuro, massiccio, tipico di quei granchi atlantici che nulla hanno a che vedere con il marrone lucido di quelli adriatici o il puntinato dei cosiddetti «granchi giapponesi», il più brutto forse fra i crostacei nella sua compattezza che esclude persino quelle difformità che abbelliscono le ostriche, ma da cui spunta il rosa delle chele ad anticipare la squisitezza e la sinfonia di colori dell'internoIl tutto sullo sfondo di un paesaggio ostile che per illuminarsi aveva bisogno di un occhio tutto suo, capace di vedere ciò che non appariva. Era bruttissimo De Pisis, e da giovane lo avevano riformato per nevrastenia. «Un po' malato io sono di certo e perciò abbastanza ragionevole, vivo in una casa di salute costruitami a mio uso e consumo». Morì relativamente giovane, a sessant'anni, ma l'ultimo decennio lo passò in una casa di cura, la pittura ormai un peso, se non un incubo.

Per una di quelle coincidenze che non sono tali, ma un segno del destino, la mostra che lo celebra a Milano è a meno di centro metri da quella che a Palazzo Reale celebra De Chirico. Si erano conosciuti a Ferrara nel 1916 e all'Ospedale militare neurologico, allestito a Villa del Seminario e specializzato nella cura dei traumi psicologici dovuti alla guerra, si era creata la curiosa alchimia fra chi come i fratelli De Chirico passava la visita di leva e chi, come appunto «il marchesino pittore» più giovane di loro rispettivamente di otto e di cinque anni, veniva definitivamente dichiarato inabile. L'anno dopo era arrivato anche Carrà, e poi Soffici, ovvero il maestro di tutti, e insomma Ferrara, «la città letale, il fondo di palude che emette esalazioni mefitiche», si era trasformata in una città metafisica dove questi improvvisati sodali scoprivano suo tramite nuovi spazi e trovavano nelle «camere melodrammatiche» del suo palazzo lo scatenarsi di una fantasia combinatoria ed esaltata.

La metafisica deve a De Pisis molto di più di quanto i dioscuri Giorgio e Alberto fossero allora e dopo disposti ad ammettere.

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