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"The Son", il thriller-drama con Hugh Jackman implode per eccesso di prevedibilità

Un film che racconta di tensioni familiari e depressione, accenna alle responsabilità dei genitori e alla subdola ineluttabilità di certe forme di dolore, ma non commuove come vorrebbe

"The Son", il thriller-drama con Hugh Jackman implode per eccesso di prevedibilità

Alla 79ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia oggi in concorso è la volta di The Son di Florian Zeller. Il drammaturgo francese dà alle sale un’opera seconda che prosegue la trilogia iniziata con “The Father – Nulla è come sembra”, vincitore di due Premi Oscar tra cui quello per la migliore sceneggiatura non originale.

Un film che parla della responsabilità che si ha nei confronti dei figli e di quella che si ha nei confronti di se stessi, ma anche di come queste si rivelino chiacchiere sterili di fronte all’imponderabile buio della psiche e alle sue conseguenze.

Peter (Hugh Jackman) vive con la sua compagna Beth (Vanessa Kirby) e con il loro neonato. L’uomo ha una ex moglie, Kate (Laura Dern), da cui è separato da due anni, che lo mette al corrente dei comportamenti distruttivi del loro tormentato figlio diciassettenne, Nicholas (Zen Mcgrath). Il ragazzo è in preda a un profondo male di vivere che riconduce al dolore per il divorzio dei suoi. Scontento, indecifrabile e sempre più spesso assente da scuola, chiede di andare a vivere con il padre. Nonostante Peter si sforzi di essergli d’aiuto, il giovane non sembra migliorare. Quando le cose iniziano ad andare per il verso giusto, il genitore si rilassa, accetta un importante incarico politico, ma la verità sullo stato psicologico del ragazzo è solo ben dissimulata.

In “The son” la malattia è inserita in un contesto a dir poco roseo, in cui apparentemente ci sarebbe tutto quel che serve per essere felici. Eppure i personaggi si trovano a fronteggiare qualcosa che è tanto intangibile quanto pericoloso. Se nell’aggredire il corpo il male fisico ha una sintomatologia perlopiù visibile, qui il problema è psichico e di esplicito ci sono solo le lacrime e il tracimare del dolore nell’autolesionismo.

“The Son” è un film che punta più sul non detto che sui dialoghi. I rapporti tra i vari personaggi, il loro legame, si avverte soprattutto negli sguardi. Del resto la situazione, tra vecchi sentimenti, nuove relazioni, incomprensioni, gelosie e affetti imperituri, è di quelle in cui non conviene esplicitare troppo a parole e semmai dichiararsi vicinanza o astio in altri modi.

Il cast è eccellente, peccato che la tanto sbandierata presenza di Sir Anthony Hopkins sia solo un cammeo, per quanto breve e significativo.

Realistico il fatto che la malattia mentale resti un mistero nelle sue dinamiche, ma sarebbe stato meglio rendere oscuro anche dove la trama andrà a parare. Difficile infatti ricordare un più chiaro esempio recente di “pistola di Checov” in una sceneggiatura. “The son” è la quintessenza del prevedibile: spreca così tanto tempo nel creare una tensione che non diventa mai tale, che l’effetto collaterale è l’affacciarsi della noia. Siamo in un dramma che si auto-spoilera di continuo. Impossibile ad esempio non aspettarsi accada qualcosa nel reparto lavanderia della casa dal momento che, a più riprese, una musica sinistra accompagna l’inquadratura della lavatrice in azione.

I flashback relativi all’infanzia felice in famiglia danno un afflato poetico e malinconico all’insieme. Il discorso incisivo che il “cattivo padre” (Hopkins) fa per difendersi dall’ipocrisia che il buon genitore sia quello che rinnega le sue ambizioni personali o professionali, non fa una piega. Ma la paternità, il gioco dei ruoli, l’inutilità di prendere le distanze dai comportamenti di chi ci ha generato, sono temi che semplicemente fanno volume in un’opera che non è interessata davvero ai legami di sangue o ai sensi di colpa. Al centro c’è il buco nero della depressione. Il suo poter essere scambiata in certi casi per una macchinazione fasulla, atta a manipolare terzi e a mettere in piedi la vendetta per un torto subito. Le motivazioni della sofferenza del ragazzo sono a tratti subdole e, visti i suoi modi ricattatori, l’empatia nei suoi confronti non è immediata. Il suo personaggio rasenta l’antipatia ed è più facile prendere le parti di chi ci sembra trovarsi a rischio proprio perchè vicino a lui. “The son” riesce nell’intento di far dubitare della gravità della situazione lo spettatore così come accade agli adulti del film, ma da un lato quest’ambiguità non basta a farne un thriller e dall'altro è invece sufficiente ad abortire in parte la commozione del finale.

“Abbi fiducia in te, respira, continua ad andare avanti” dice in una scena al figlioletto seienne, in acqua, chi lo ha messo al mondo.

Colpisce che un genitore possa insegnarti a nuotare ma nessuno possa darti le giuste istruzioni per imparare a vivere.

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