Cultura e Spettacoli

"Sono la più brava, ma sul set a volte fingo di sbagliare..."

L'attrice a Roma presenta "Florence Foster Jenkins", commedia su una pessima cantante d'opera miliardaria

"Sono la più brava, ma sul set a volte fingo di sbagliare..."

Ottima. Anche quando fa la pessima, come nel film di Stephen Frears Florence Foster Jenkins (dal 22 dicembre con Lucky Red), dove Meryl Streep, 3 Oscar e 67 anni portati con noncuranza, è la protagonista del titolo. Una miliardaria infantiloide, realmente esistita (fu amica del noto direttore d'orchestra Arturo Toscanini), che nella New York degli anni Quaranta pretende di cantare arie d'opera, stonando come una campana. Tanto ci pensa il marito più giovane (Hugh Grant) a pagare la critica compiacente, per far vivere la moglie in un sogno. Finché Florence riesce a esibirsi alla Carnegie Hall e allora sì, sarà difficile negare l'evidenza. Manca il talento, ma non il buon cuore, o la gioia coniugale.

A tre giorni dalla sua fine, la Festa di Roma cala l'asso d'una commedia biografica ben riuscita, ma soprattutto di un'attrice che piace universalmente. In pantaloni larghi e comodi da pratica americana, Meryl appare affabile, studiatamente modesta e, prima di ogni risposta, fa un risolino svagato, come una zia che volesse farsi perdonare la propria indispensabilità.

Nei suoi musical, da Mamma mia a Ricki, passando per Into the Woods, dimostra d'essere una brava cantante. Come è riuscita a peggiorare la voce, per esigenze di copione?

"Mi sono preparata con un coach, che prima mi ha fatto cantare arie e opere meglio che potevo, poi mi ha detto: Adesso fai del tuo peggio. Ogni tanto scoppiavo a ridere... Poi mi è venuto in mente d'ispirarmi a George Gershwin: lui suonava il piano e s'accompagnava cantando. Interiormente, sentiva d'avere una gran voce. Ma il fatto è che conosceva bene le note".

Le è mai capitato, nella sua lunga carriera, di temere critiche ostili, come la sua Florence?

"Per fortuna, ci pensa mio marito a dirmi: Tutto bello, quello che hanno scritto su di te. No, non leggo mai le reazioni al mio lavoro, perché, specialmente adesso, temo le imboscate. Ti criticano per via dell'età, per la forma fisica. No, certi gossip non li reggo proprio".

Quale rapporto ha con la musica e con l'opera?

"Da adolescente ho preso lezioni di canto con Estelle Liebling. Dovevo spostarmi dal New Jersey a New York, per studiare con lei, che era una grande insegnante. Io, invece, un'idiota: ero soltanto una teenager e pensavo che l'opera fosse noiosa. All'epoca volevo soltanto fare la cheerleader, per cui mollai le lezioni e cominciai a fumare".

Come si è preparata al bizzarro personaggio di Florence Foster Jenkins?

"La prima volta che ho sentito parlare di lei frequentavo la School of Drama a Yale, dove gli studenti si passavano le cassette con le sue registrazioni. Quando ho iniziato ad ascoltarla mi sono innamorata del personaggio che stava dietro le sue aspirazioni. Così mi sono ricordata di questo e, d'altronde, per ogni personaggio femminile che interpreto vado in immersione. Cerco di difendere il personaggio che interpreto e, qualsiasi esso sia, ci trovo uno o più elementi validi da raccontare. Stavolta ho amato rendere il senso del gioco di Florence, che abbiamo tutti da bambini e poi perdiamo".

Quarant'anni di carriera: che cosa significa, per lei, fare cinema?

"La stessa cosa di quando ho iniziato. Tutte le donne che ho interpretato hanno la stessa importanza della prima che ho incarnato. Sarà per via della perdita di memoria a breve termine, ma non percepisco un calo d'entusiasmo. Amo la recitazione e, finché continueranno a scegliermi..."

Quand'è nata la sua passione per la recitazione?

"Mi sono accorta d'essere nata per questo lavoro quando ho iniziato a imitare mia nonna. Dovevo essere lei e mi truccavo, mettendomi le rughe sulla faccia, per somigliarle. Fin da ragazzina mi chiedevo: come sarei, se fossi questa o quest'altra? Provo un piacere colpevole, quando immagino la vita e i sentimenti d'un personaggio".

Al Festival di Berlino ha sostenuto strenuamente Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Lo farà anche agli Oscar?

"Certo: credo sia un'opera veramente unica, che ci tocca con tante immagini. Il fatto è che ci accorgiamo di questa massa di persone che arrivano solo quando vediamo un bambino che viene tirato fuori dal mare, o trasportato su una barella, coperto di polvere. Nel documentario di Rosi c'è la storia bellissima di un medico, che in una piccola isola combatte l'orrore del mondo. Credo che Fuocoammare abbia buone possibilità, per l'Oscar".

È considerata un mito vivente: come fa a farsi accettare dai colleghi, sul set?

"Avverto l'obbligo di smontare questo edificio il primo giorno che incontro gli altri attori. Recitare vuol dire avere un feeling reciproco, non dev'esserci un muro di separazione. Allora, mi diverto: mi dimentico le battute, mi sposto nella direzione sbagliata. Gli altri mi guardano e pensano: Forse non è brava come pensavamo.

E si rilassano".

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