Cultura e Spettacoli

Il sopravvalutato "Jojo Rabbit", satira anti-nazismo con sei nomination

Un ottimo soggetto andato in parte sprecato in un film educativo ma indeciso tra fiaba, divertissement e cinema politico. Pasticciato l'accostamento di toni drammatici e umoristici

Il sopravvalutato "Jojo Rabbit", satira anti-nazismo con sei nomination

"Jojo Rabbit", film targato Disney che ritrae in chiave satirica il nazismo ricorrendo in parte al linguaggio della fiaba, ha vinto il premio del pubblico allo scorso Festival di Toronto ed è fresco candidato a ben sei nomination all'Oscar tra cui quella per il miglior film.
Eppure non siamo di fronte a un'opera particolarmente riuscita. Seppur forte di un nobile intento educativo e di un finale abbastanza emozionante, quest'adattamento del romanzo 'Il cielo in gabbia' di Christine Leunens ha un andamento fiacco e si presenta come un assemblaggio disarmonico di diversi generi cinematografici. Il suo limite più evidente risiede proprio nel passare senza soluzione di continuità e in maniera poco aggraziata da una prima parte votata al surrealismo comico a tinte pastello (alla Wes Anderson) a una seconda, più riuscita, improntata al realismo.
Siamo nella Germania nazista del 1944. Jojo (Roman Griffin Davis) ha dieci anni ed è talmente entusiasta di far parte della gioventù hitleriana da avere come amico immaginario il Führer (Taika Waititi, che è anche il regista). Un giorno scopre che la madre (Scarlett Johannson) nasconde in casa Elsa (Thomasin McKenzie), una ragazzina ebrea, con cui per forza di cose si troverà a fare progressivamente amicizia. Questo rapporto lo porterà a riflettere sull'insensatezza dell'odio razziale.
Il dramma del contesto bellico è stemperato e la violenza emerge solo sporadicamente. "Jojo Rabbit" mette alla berlina i principi fondanti e i rituali dell'ideologia nazista con toni farseschi. Appare ingenuo che qualcuno oltreoceano si sia scandalizzato nel veder esorcizzare per mezzo dell'ironia una tra le più sanguinarie pagina di Storia: il tabù, ammesso sia mai stato tale, è stato infranto più volte al cinema, dal capolavoro di Chaplin "Il grande dittatore" in poi. Ciò detto, il film non tocca le vette di comica insolenza dei suoi predecessori, né purtroppo sembra realizzare appieno le potenzialità del geniale soggetto di partenza (l'Hitler sui generis compare solo all'inizio e alla fine).
L'incipit, un parallelismo tra il fanatismo per il Terzo Reich e quello delle ammiratrici dei Beatles, è indovinato, così come il cast in cui spiccano Sam Rockwell, a suo agio nella parodia di un ufficiale dell’esercito nazista, e la Johannson, qui nel ruolo della madre, che strappa (addirittura) la candidatura all'Oscar.
Le figure femminili nella narrazione hanno il compito di aiutare l'impacciato, sensibile e impopolare bambino protagonista a pensare con la propria testa e a sviluppare quel muscolo morale che è la coscienza. "Jojo Rabbit" si presenta, infatti, come un coming of age in cui c'è spazio per la scoperta del diverso e del valore della tolleranza, oltre che per i primi confusi palpiti sentimentali.


Occasioni, poco incisive a dire il vero, di sorridere, commuoversi e riflettere ci sono; ma non bastano a risollevare quel che resta in buona parte un pastiche senza mordente.

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