Cultura e Spettacoli

Springsteen: "Senza Elvis non sarei mai stato il Boss"

Bruce Springsteen è un simbolo della musica. E qui spiega per quale motivo un giorno ha preso in mano la chitarra...

Springsteen: "Senza Elvis non sarei mai stato il Boss"

Pubblichiamo un estratto del discorso che qualche giorno fa Bruce Springsteen ha pronunciato al Convention Center di Austin, Texas. È la spiegazione del perché lui, una delle più grandi rockstar dei no­­stri tempi, abbia deciso fin da bambino di imbracciare la chitarra. Il testo integrale è raccolto in La nota giusta edito da ISBN Edizio­ni e si può leggere e scaricare gratuitamente dal sito www.isbne­dizioni. it. La prefazione è di Luca De Gennaro di Mtv.

All’inizio, ogni musicista vive il suo momento di genesi. Per voi potrebbero essere stati i Sex Pistols, o Madonna, o i Public Enemy. Qualunque cosa vi abbia fornito la spinta iniziale per l’azione. Per me è stato il 1956, Elvis e l’Ed Sullivan Show. Fu la sera in cui capii che anche un bianco poteva creare qualcosa di magico, che non era inevitabile finire condizionati e limitati dall’ambiente in cui si cresceva, dal proprio aspetto, o da un contesto sociale opprimente. Era possibile evocare il potere della propria immaginazione e trasformare il proprio io. E parlo di un ben preciso tipo di trasformazione, la trasformazione in un nuovo io che in qualunque altro momento della storia americana sarebbe sembrato difficile creare, se non impossibile. Ai miei figli dico sempre che hanno avuto fortuna a nascere nell’era della riproducibilità tecnologica, altrimenti loro vivrebbero nel retro di un furgone e io avrei in testa un cappello da giullare. È tutta questione di tempismo. L’avvento della televisione negli anni Cinquanta, con la sua diffusione dell’informazione visiva, ha cambiato il mondo proprio come internet ha fatto negli ultimi venti anni. Badate bene, non era solo l’aspetto di Elvis, ma era il modo in cui si muoveva a far impazzire la gente, a farla infuriare, a portarla a picchi di estasi urlante o di sdegno scandalizzato. Merito della televisione. Tentarono anche di censurarlo dalla vita in giù, perché si riusciva a vedere quel che gli succedeva nei pantaloni. Elvis è stato il primo uomo moderno del Ventesimo secolo, il precursore della rivoluzione sessuale, della rivoluzione dei diritti civili, figlio della stessa Memphis di Martin Luther King, creatore di un’arte fondamentale e outsider che sarebbe stata accolta nella cultura popolare mainstream. Elvis e la televisione ci hanno dato pieno accesso a un linguaggio nuovo, a una nuova forma di comunicazione, un nuovo modo d’essere, un nuovo modo di apparire, un nuovo modo di pensare: al sesso, alla razza, all’identità, alla vita; un nuovo modo di essere americani, di essere umani; e un nuovo modo di ascoltare musica. Non appena Elvis si diffuse nell’etere, non appena tutti ebbero modo di sentirlo e vederlo in azione, fu impossibile rimettere il genio nella lampada. Da quel momento la distinzione divenne chiara: di là il passato, di qua il presente, e proprio davanti ai vostri occhi un futuro che veniva forgiato al calore bianco del rockabilly. Per cui, una settimana dopo, ispirato dalla passione nei pantaloni di Elvis, le mie piccole dita di seienne si aggrapparono per la prima volta al manico di una chitarra noleggiata da Mike Deal’s Music di Freehold, New Jersey. Ma erano troppo piccole, le mie dita. Un fallimento con la F maiuscola. E allora mi limitai a battere sulla chitarra con la mano. Battevo, battevo... davanti allo specchio, ovviamente. Lo faccio ancora. Voi no? Dai, su, bisogna sempre tener d’occhio come ci si muove. È vero o no? Ma prima ancora di Elvis, il mio mondo aveva già iniziato a prender forma grazie alla radiolina con altoparlante mono da sei pollici che stava in cima al nostro frigo. Mia madre adorava la musica, e ci ha cresciuti a suon di pop radiofonico. E così, ogni mattina, tra le otto e le otto e mezza, mentre seppellivo di zucchero i miei Sugar Pops, la radio sussurrava doo-wop e pop delle origini nelle mie giovani e impressionabili orecchie. Il doo-wop, la musica più sensuale mai composta, il suono del sesso grezzo, delle calze di seta che sfregano sulle fodere dei sedili posteriori, il suono di reggiseni slacciati all’unisono in tutti gli Stati Uniti, di suadenti bugie sussurrate in orecchie profumate di Tabu, il suono dei rossetti sbavati, dei lembi di camicia tirati fuori dai pantaloni, del mascara che cola, delle lacrime sul tuo cuscino, dei segreti mormorati nella quiete della notte, sulle gradinate dei campetti, nelle mense buie dei dormitori studenteschi. La colonna sonora delle vostre incredibili, meravigliose camminate notturne di ritorno a casa dopo il ballo, chiappe indolenzite e palle gonfie da scoppiare, ma oh! Era un dolore così bello. Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, il doo-wop sgorgava dalle radio fin dentro le stazioni di servizio, le fabbriche, le strade, le sale da biliardo... i templi della vita e del mistero nella mia cittadina.

E regolarmente venivo rapito dalla sua semplice progressione di accordi.

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