Cultura e Spettacoli

Lo Stato etico di Gentile è anche un po' socialista

Nel suo testamento spirituale del 1943 il filosofo colloca la collettività davanti all'individuo

Lo Stato etico di Gentile è anche un po' socialista

Due belle notizie in una: riprende l'attività la storica casa editrice Vallecchi e subito esce per i suoi tipi la nuova edizione di una delle più importanti opere della filosofia italiana del Novecento: Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, di Giovanni Gentile (pagg. 262, euro 18, introduzione di Marcello Veneziani). Diciamo subito che si tratta di un'opera molto particolare, per più motivi: prima di tutto perché segna per Gentile un ritorno alla speculazione dopo vent'anni di impegno soprattutto politico-culturale; poi perché, per molti aspetti, essa rivolta il senso del suo sistema di pensiero «neoidealistico», così come era andato delineandosi soprattutto nei due primi decenni del secolo. Inoltre perché, giungendo alla fine della sua vita, essa suona quasi come un testamento, e anzi come tale fu scritto, quasi di getto, a Tonghi, presso Firenze, da un Gentile che presagiva la morte.

Era il 1943 e il filosofo, che sarebbe stato ucciso da un agguato partigiano il 15 aprile dell'anno successivo, si mise a lavorare per scrivere l'opera subito dopo aver pronunciato a fine giugno un lirico Discorso agli italiani in Campidoglio. In esso, egli proponeva una conciliazione nazionale in grado di far ripartire il Paese dopo la guerra civile che lo stava spaccando in due. A Mario Manlio Rossi, un suo allievo antifascista e che da filosofo farà una strana carriera in Scozia nel dopoguerra come docente di letteratura italiana, Gentile, mostrando il manoscritto finito dell'opera, così disse: «i vostri amici possono uccidermi ora se vogliono, il mio lavoro nella vita è concluso».

Quale sia la novità di Genesi e struttura della società è presto detto: l'emersione della comunità all'interno di un pensiero che, per come era stato elaborato, poteva subire facilmente torsioni individualistiche. Se è infatti evidente che l'individuo idealistico non è quello empirico, è pur vero che è nell'uomo concreto in carne e ossa che si consuma tutto il dramma di un Atto puro che, come il fuoco, consuma il combustibile che gli viene dato e trascende sempre le pratiche realizzazioni umane. Ne consegue che, per paradossale che possa sembrare, l'attualismo di Gentile è un «idealismo senza idee», come ebbe a definirlo Vittorio Mathieu, e quindi è molto prossimo al nichilismo e al relativismo. Con questa prospettiva, veniva però a contrastare tutta l'esperienza fascista, e in fondo la stessa voce di Gentile all'interno di essa. Il nazionalismo, l'appello allo Stato etico, l'organicismo, tutti quelli che erano gli elementi essenziali a cui, non senza contrasto con le altre anime del regime, il filosofo di Castelvetrano aveva praticamente aderito, trovano ora una giustificazione teoretica, ma anche una rivisitazione critica.

Si fa perciò ancora più forte il distacco di Gentile dal liberalismo, da quella che lui considera hegelianamente una visione atomistica e astratta della società umana. Il «noi» precede l'«io», e l'individuo è un risultato e non un dato. Ed emergono con ancora più nettezza i caratteri del regime politico ideale come Stato etico. Uno Stato, cioè, con una propria religione, un insieme forte di valori da trasmettere ai singoli pedagogicamente e paternalisticamente. È uno Stato e una comunità in interiore homine, certo, quella a cui pensa Gentile, ma l'insistenza sui valori sociali avvicina ora veramente il suo pensiero a quello socialista. D'altronde, il Duce stesso, che egli fino all'ultimo non volle tradire, si ricongiungeva in qualche modo, con l'esperienza di Salò, alle sue origini.

In questa direzione teoricamente raffinata e socialisteggiante va anche l'insistenza, in Genesi e struttura della società, su un «umanesimo del lavoro» che deve affiancare quello della cultura che gli italiani elaborarono già in epoca rinascimentale.

Comunque sia, la radicalità e la profondità di questo pensatore, di cui pure tanto non condividiamo, ci fa toccare con mano in modo impietoso il deserto culturale dei nostri tempi e la decadenza delle classi dirigenti della nostra povera Italia.

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