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Le stragi sabaude? Nate dalla propaganda dei filoborbonici

Il famoso eccidio di Pontelandolfo fu ingigantito dai legittimisti. Un falso storico di lunga durata

Le stragi sabaude? Nate dalla propaganda dei filoborbonici

Il caso dell'«eccidio» che sarebbe stato consumato il 14 agosto 1861 dal regio esercito piemontese in un paese, Pontelandolfo, oggi in provincia di Benevento è stato elevato, dalla letteratura antirisorgimentale, a simbolo della ferocia con la quale sarebbe stata portata avanti «la conquista del Sud» dalle truppe fedeli ai Savoia. Per molto tempo è stata accreditata una versione dei fatti che aveva come fonte primaria la Storia delle Due Sicilie di uno storico borbonico, Giacinto de' Sivo, il quale, dopo la caduta di Napoli, alla sottomissione ai Savoia aveva preferito l'esilio e aveva raggiunto a Roma Francesco II rifugiatovisi con la corte. Qui aveva scritto la sua opera, che rimane peraltro il miglior prodotto della letteratura storiografica legittimista e filoborbonica. La tesi di De' Sivo, transitata poi in maniera acritica in tanti altro lavori, è che l'azione militare ordinata dal generale Cialdini, che comandava l'esercito italiano, fosse una rappresaglia per la strage di una quarantina di soldati piemontesi avvenuta l'11 agosto.

Le cose, in realtà, stanno diversamente. E lo dimostra un libro di Giancristiano Desiderio dal titolo Pontelandolfo 1861 (Rubbettino, pagg. 152, euro 14), che non soltanto ricostruisce i tragici avvenimenti di quel periodo sulla base di una lettura critica di documenti e testimonianze ma che, pure, rivista e ridimensiona il «mito» che la letteratura filo-borbonica e anti-unitaria aveva finito per costruire attorno ai fatti di Pontelandolfo.

Gli avvenimenti vanno inquadrati nel clima turbolento che accompagnò il crollo del Regno delle Due Sicilie e l'annessione di quei territori al Regno d'Italia. Si pensò da parte di comitato e nostalgici del regno borbonico di utilizzare le bande di briganti per dare l'illusione della nascita di una Vandea napoletana e di una resistenza legittimista. Ma, come osserva Desiderio, «i briganti rimangono tali e non possono essere trasformati in patrioti borbonici senza falsificare la storia».

Nel piccolo centro di Pontelandolfo i briganti, capeggiati da un certo Cosimo Giordano, un ex sergente borbonico ora a capo di una banda sanguinaria, si erano impadroniti del potere e avevano costituito una specie di governo provvisorio opera dello stesso Giordano e di un sacerdote legittimista, l'arciprete don Epifanio De Gregorio che sognava di trasformare quel luogo nel centro della rivolta sanfedista e antisabauda. L'11 agosto, una quarantina di soldati del regio esercito furono inviati nei pressi di Pontelandolfo per un'opera di ricognizione sul territorio al fine di fare argine ai briganti. Ma, accolti da manifestazioni di ostilità, vennero trucidati. Qualche giorno dopo, il 14 agosto, si ebbe l'incendio e il sacco di Pontelandolfo ad opera dalle truppe inviate dal generale Cialdini e guidate dal colonnello Pier Eleonoro Negri. Si trattò, certo, di fatto di una rappresaglia, ma in realtà l'operazione era stata programmata prima dell'eccidio dei soldati italiani e come una operazione di controllo e di ripristino dell'ordine in una zona che aveva fatto registrare numerosi e violenti atti di brigantaggio.

Dallo studio fatto da Giancristiano Desiderio, che ha messo a confronto le diverse versioni sui fatti oltre che le interpretazioni storiografiche che ne sono state date, emergono una serie di importanti contraddizioni e la inattendibilità della versione, divenuta una vulgata della letteratura filoborbonica, di Giacinto De Sivo. Ma soprattutto da esso risultano ridimensionati sia la portata dell'operazione sia il numero delle vittime. Scrive, dunque, l'autore: «se la controstoria ci dice che a Pontelandolfo il 14 agosto 1861 ci furono centinaia o addirittura migliaia di vittime e l'azione dell'esercito italiano fu una spietata rappresaglia, i documenti tutti i documenti sconfessano il mito della controstoria e dicono che l'ordine di intervenire sull'Alto Sannio non fu concepito come una vendetta e mostrano che nell'incendio morirono tredici persone».

Da attento cultore di Benedetto Croce, qual egli è, Desiderio svela il meccanismo attraverso il quale è stata creata, e si è affermata nel tempo, una versione di quei fatti che è una «falsa storia», proprio nel senso crociano del termine, cioè a dire una storia che, per giustificare una tesi precostituita, non si cura dei documenti. Probabilmente il saggio di Giancristiano Desiderio, per il fatto di demolire un mito della polemica antiunitaria, provocherà in taluni irritazione, ma è un esempio di come la storia dovrebbe la storia dovrebbe essere davvero scritta.

Senza cedere alla dittatura delle passioni di parte e allo gusto dello scandalismo.

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