Cultura e Spettacoli

Tutte le guerre di Mimmo Cándito (cancro compreso)

Luciano GulliUn dolore intenso, tra le spalle e la nuca, di quelli che ti colgono quando passi troppo tempo al computer, per esempio. E che di solito si alleviano, massaggiandoti alla buona, ruotando la testa, facendo qualche esercizio di stretching andando e venendo dal frigo. A Mimmo Cándito, corrispondente di guerra della Stampa, il cancro si presentò così, col profilo subdolo della baggianata. Accadde nell'estate del 2005, a Miami, dove Mimmo stava preparando un reportage tra gli esuli cubani. Un salto al Mount Sinai Hospital; il dottor Levi che prescrive una lastra in cerca di vertebre in disordine; lo sguardo che, di fronte alla lastra, vira su una strana macchia biancastra, «una macchia nel posto sbagliato», all'apice del polmone sinistro. E poi il verdetto spietato dell'oncologo, il dottor Lilenbaum: «Speranze di sopravvivere, zero virgola zero». Quando la notizia si diffuse tra noi, la decina di corrispondenti di guerra riuniti nella fraternità della «Sas» (noi traducevamo l'acronimo delle forze speciali inglesi in un irriverente «Salutam'a sòreta», per irridere la paura e l'angoscia della morte accanto alla quale abbiamo camminato per anni); quando si diffuse la notizia tra noi, restammo di pietra. Tumore al polmone? A Mimmo? Come era possibile? Lui, l'accanito non fumatore, un metro e novanta di muscoli temprati da una vita consacrata allo sport? L'atletica, il basket, il tennis; vicecampione juniores nella sciabola a Reggio Calabria; un trionfo di frutta in ogni camera d'albergo, le volte che abbiamo potuto contare su una camera d'albergo?Da allora sono passati dieci anni. Mimmo è guarito, e per celebrare la sua vittoria ci ha scritto un libro che è un inno al coraggio e alla forza di volontà. Lo ha intitolato 55 vasche (Rizzoli, pagg. 234, euro 17,50), in memoria di quella eroica «traversata» in piscina in piena chemioterapia, quando la malattia lo aveva trasformato in uno zombie. Un libro emozionante e coinvolgente, un reportage spietatamente sincero, dove la sua guerra al cancro si confonde, si mischia con le guerre che abbiamo affrontato da testimoni per trent'anni, uno accanto all'altro, dal Libano all'Afghanistan, passando per la Guerra del Golfo. Convinti in fondo che la morte, chi la racconta per mestiere, non può prendersi anche il lusso di caricarsela addosso. Dalle pagine del libro ecco levarsi le colonne di fumo nero, colloso, dai pozzi di petrolio incendiati dalla soldataglia di Saddam a Kuwait City; che ci volevano gli abbaglianti, per guidare a mezzogiorno, e una torcia per prendere appunti; e la strana mini bomba atomica del Mutla Ridge sganciata dagli americani sugli iracheni che fuggivano dal Kuwait, nel febbraio del 1991, quando trovammo centinaia di mezzi di ogni tipo spazzati via dall'autostrada, ma zero cadaveri, e zero tracce di sangue, come se la bomba gli avesse risucchiato l'aria dai polmoni, ai fuggitivi. Lasciando probabilmente un souvenir anche in quelli di Mimmo. Ma anche la consapevolezza, come ricorda lui nel suo libro, che «guerra o tumore sono la stessa cosa, che devi averne paura ma anche devi saperci lottare per salvare la pelle.

E che quello che conta, soprattutto, è la testa, la volontà, la capacità di ricominciare senza darsi sconfitti e nuotare fino a 55 vasche o anche più».

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