Cultura e Spettacoli

Venezia: "Ema" di Larrain è un 'trucco' riuscito più che un bel film

Balli in strada su musiche orgogliosamente disturbanti, sesso di gruppo e omosessuale, disagi esistenziali a go-go. Un film che prima ammorba con i suoi eccessi, poi conquista nel finale

Venezia: "Ema" di Larrain è un 'trucco' riuscito più che un bel film

Ieri sera al Lido è stato presentato alla stampa "Ema" di Pablo Larrain, in concorso alla Mostra del Cinema.

Stavolta il regista di "Neruda" e "Jackie" (per citare i lavori più recenti) ambienta un suo film non nel passato ma nel Cile contemporaneo, per la precisione nella pittoresca città portuale di Valparaiso.

"Ema" racconta di una giovane ballerina di talento (Mariana Di Girolamo) che si esibisce in un ensemble di danza moderna guidato dal marito, il coreografo Gaston (Gael Garcia Bernal). Il matrimonio dei due è però a pezzi a seguito di una scelta pesante: quella di allontanare il bambino di sei anni che avevano adottato, Palo. Il problema è che il piccolo ha tentato di incendiare casa, deturpato il volto della sorella di Ema ed è tipo da congelare un gatto. Ema tenta di superare in diversi modi il senso di colpa per non aver saputo gestire e crescere Palo: accusa il marito di essere il responsabile di quanto avvenuto, danza il reggaeton per le strade della città con le amiche e compagne di letto, infine cerca nuove relazioni usando il sesso come arma di potere.

Nulla lascia presagire che possa esserci una logica in quel trascorrere la giornata all'insegna del distacco emotivo, della promiscuità del corpo e del ballo come sedativo esistenziale.

L'unico indizio che Larrain semina a più riprese in questo senso è la capacità di Ema di porsi di fronte a individui anche diversissimi tra loro e diventare entro pochi minuti una specie di silenzioso analista con cui ci si confessa volentieri. Questa caratteristica strappa molti sorrisi, così come il modo che ha di comunicare con il marito, fatto di definizioni senza mezze misure: passa, senza soluzione di continuità, dall'appellarlo "porco sterile" al definirlo "prezioso e bello". Pronuncia, letteralmente senza battere ciglio (a occhi spalancati e indifferenti), definizioni che uccidono e rianimano a distanza di pochi minuti. Viene naturale vedere in un siffatto atteggiamento un'instabilità radicata, una bipolarità conclamata. Invece, cosa ci sia davvero dietro a quello sguardo vitale eppure immobile si scopre negli ultimi dieci minuti di film. Un twist di grande efficacia, da cui scatta una benevola ilarità anche nello spettatore meno bendisposto a perdonare a Larrain un'ora e mezza di corpi che si dimenano da vestiti, su ritmi alla lunga fastidiosissimi per chi non abbia i vent'anni di oggi, e da nudi, in amplessi (scene comunque non da divieto ai minori) con chicchessia.

Pablo Larrain stupisce ogni volta e non è un regista per tutti: al termine della proiezione stampa è stato applaudito ma c'era almeno metà sala, tra cui chi scrive, ancora interdetta.

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