Cultura e Spettacoli

Venner, ritorno spirituale alle radici dell'Europa di un cavaliere moderno

Venner, ritorno spirituale alle radici dell'Europa di un cavaliere moderno

Le coeur rebelle s'intitolava il libro che Dominique Venner (1935-2013) pubblicò nel 1994 per Les Belles Lettres, autobiografia e insieme memoir di un allora sessantenne ancora intellettualmente inquieto eppure in pace con sé stesso. Il primo trentennio della sua vita era stato all'insegna del mestiere delle armi e dell'«Algeria francese» prima e della militanza politico-clandestina poi, gli anni Sessanta dell'Oas, dei primi gruppuscoli nazionalisti e poi a vocazione europea, e di quelli anti-gollisti, l'idea di una Repubblica corrotta e traditrice da rovesciare con un putsch che ridesse dignità a chi, incarnando lo spirito di una nazione, non si rassegnava a buttarsi alle spalle un'idea di grandeur e ciò che restava di un impero.

Nel mondo di una certa destra italiana dell'epoca, l'epopea dei berretti rossi indossati dai parà in Indocina come in Algeria, con l'annessa mistica del soldato politico e del colpo di forza, esercitò un fascino ambiguo quanto anacronistico: avevamo perso malamente la Seconda guerra mondiale, con l'annesso sfascio dell'Otto settembre e del «tutti a casa» dell'esercito italiano; lo stesso fenomeno della Resistenza armata al nazifascismo si era rivelato minoritario e ininfluente sul fronte bellico, per poi trasformarsi nel giro di un decennio in una vulgata ideologica egemonizzata a sinistra; mancavamo di una tradizione coloniale radicata, non potevamo contare su una grandeur nazionale plurisecolare.

Soprattutto, la sconfitta del fascismo aveva seppellito con sé quei concetti di onore, fedeltà, patria, eroismo, sacrificio individuale che di quel regime erano stati per vent'anni un elemento retorico distintivo, ma che alla prova dei fatti però non avevano retto. L'Italia della ricostruzione veleggiava in un mare dove la vacanza dalla Storia e della Storia impediva rotte pericolose, ma garantiva un nuovo benessere, una modernizzazione in fieri e tuttavia indiscutibile, una democrazia dei partiti rissosa, ma a suo modo funzionale. Smesso l'elmo di Scipio, era tornato in superficie quel carattere italiano geniale e inaffidabile, simpatico e indisponente, artistico con quel tanto di cialtronesco che incantava gli stranieri, felici di essere conquistati da un popolo ammirato e insieme disprezzato.

In Francia, era tutto più complicato. Per certi versi, avevano perso la guerra peggio di noi, sbaragliati e occupati nel giro di nemmeno un mese, divisi a metà e con un governo, quello della cosiddetta Francia libera di Vichy, impersonato dal maresciallo Pétain, l'eroe della Grande guerra, di fatto infeudato alla volontà di Berlino. La Resistenza, per quanto anch'essa minoritaria, si era però rivelata sin da subito e aveva trovato il suo leader non nei tradizionali partiti, ma in un altro militare, il generale de Gaulle, emblema di quell'altra Francia che non si arrendeva e continuava la sua guerra contro l'invasore. Proprio il suo non essere un politico di professione, caricava de Gaulle di un prestigio di stampo diverso, lo stesso per cui la Francia repubblicana si era affidata a Pétain, ma di segno rovesciato, il simbolo della rivincita rispetto al testimone di una disfatta.

A guerra finita, la Francia si trovò così dalla parte dei vincitori, e per circa un decennio pensò di poter fare a meno politicamente del suo salvatore in uniforme: la pace gli aveva riconsegnato le colonie, il prestigio nazionale e imperiale, per quanto ammaccato, sembrava potesse ancora reggere. Fu un errore, perché nel giro di poco, prima l'Indocina e poi l'Algeria entrarono in fibrillazione: avevano aiutato la «madrepatria» a uscire vittoriosa dal conflitto, ma le promesse allora fatte di indipendenza e libertà in cambio di quell'aiuto venivano ora disattese.

Come gli aristocratici dell'Ancien Régime, i rappresentanti della Quarta Repubblica non avevano imparato nulla e niente avevano dimenticato. De Gaulle riemerse dalla lunga «traversata nel deserto» dell'opposizione proprio quando, persa definitivamente l'Indocina, «l'Algeria francese» si rivelava una questione geopolitica troppo grossa per mente e cuori politici troppo piccoli. Non bastava sconfiggere militarmente i ribelli algerini, c'era una questione nazionale che il contemporaneo processo di decolonizzazione rendeva improcrastinabile, c'era una minoranza di pieds noirs, i francesi nati in Algeria, e di harkis, gli arabi fedeli alla Francia, da salvaguardare... De Gaulle sembrò essere l'uomo giusto rispetto ai tentennamenti e alle ipocrisie di una classe politica paralizzata dal non saper decidere, di nuovo il generale che ridava alla nazione l'onore perduto.

È anche per questo che la sua decisione di abbandonare l'Algeria al proprio destino venne vissuta come un tradimento. De Gaulle era in fondo l'unico che avrebbe potuto caricarsi sulle spalle una tale responsabilità, l'accettazione che il sogno imperiale era ormai divenuto un incubo, ma era stato anche l'unico difensore della grandeur nazionale nel momento più buio della sua storia... Per chi non voleva rassegnarsi alla decadenza, era incomprensibile che proprio lui la certificasse nero su bianco. Di qui la fallita rivolta dei generali di Algeri, il terrorismo politico in loco e nella Francia metropolitana, il passaggio alla clandestinità di molti oppositori, gli attentati contro lo stesso de Gaulle, la nascita dell'Oas, l'organizzazione armata segreta...

In Le coeur rebelle, che ora esce meritoriamente in italiano (purtroppo con la solita sciatteria tipografica che è una costante della cosiddetta editoria «alternativa», per la quale i refusi sembrano essere considerati medaglie al valore...: Cuore ribelle, Controcorrente, pagg. 174, euro 22, traduzione e prefazione di Gaetano Marabello), tutto questo è raccontato dall'interno, il giovane Venner contrario alla svendita di quella che considerava una parte della Francia sull'altra sponda del Mediterraneo. Ma la singolarità del libro sta proprio nel processo di maturazione che spinge l'autore a riconoscere che «la ribellione» contro cui egli era militarmente schierato «combatteva egualmente per una giusta causa, la propria». Non c'è nel libro rimpianto, ma la sopraggiunta consapevolezza di non aver allora compreso interamente cosa c'era in gioco: la dignità, l'identità, la patria, l'edificazione di una nazione erano insomma altrettanto presenti nel campo opposto.

Nasce anche da qui il distacco verso una politica politicante, la «pesca delle occasioni» nel mercato elettorale, il cinismo delle scelte, con annesso reducismo di comodo e di prammatica, che farà di Venner non un militante delle cause perse o un nostalgico propagandista del colpo di forza, ma il lucido costruttore di una visione della storia come ritorno spirituale alle radici, proiettata verso l'avvenire proprio perché basata su fondamenta solide. Componente fondamentale di questa nuova impostazione, da cui scaturiranno libri di storia e di storia militare, breviari esistenziali e approfondimenti filosofico-religiosi, saranno la compostezza da un lato, ovvero un modo di essere, di vivere e di morire, uno stile di vita, insomma; dall'altro un'etica non dissociabile dall'estetica, l'idea cioè che sia il bello a determinare il bene, la qualità dell'essere, non le sue opinioni o le sue idee. È anche questo che fa di Cuore ribelle un testo né disperato né nichilista. C'è un'idea della Storia come imprevedibile, ovvero sempre aperta, che fa gli uomini e che è fatta dalla volontà degli uomini. La stessa morte di Venner, suicida nel 2013 con un colpo di pistola sparato all'interno di Notre-Dame, rientra nell'idea di restare fedele ala propria immagine di uomo libero fino alle estreme conseguenze.

«Offro ciò che resta della mia vita in un intento di protesta e di fondazione» lasciò scritto, il lascito di un uomo che aveva scelto di morire in piedi, non per disgusto, ma per senso dell'onore.

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