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"La verità è assoluta Sono relativi i nostri strumenti per raggiungerla"

Il fondatore del "Nuovo Realismo" spiega le parole chiave della sua scuola di pensiero. L'ontologia, che si chiede che cosa c'è, la critica, che si accerta della realtà, l'illuminismo che è la volontà e il coraggio di sa...

"La verità è assoluta Sono relativi i nostri strumenti per raggiungerla"

Maurizio Ferraris è professore di filosofia teoretica nell'Università di Torino (dove presiede il Laboratorio di Ontologia) e responsabile di ricerca presso il Collège d'études mondiales di Parigi. Ha insegnato in università europee e americane, collaborato con Jacques Derrida e Gianni Vattimo e scritto oltre cinquanta libri, tradotti in varie lingue. La sua Storia dell'ermeneutica (1988) è diventata un classico, Estetica razionale (1997) ha inaugurato l'interpretazione dell'estetica come teoria della sensibilità, Documentalità (2009) ha trasformato le prospettive dell'ontologia sociale con ricadute che, dalla filosofia, si sono allargate al diritto, all'architettura, ai media studies.

In un articolo comparso sulla Repubblica nell'agosto del 2011 (che anticipa il suo Manifesto del nuovo realismo, Laterza, 2012) lei ha suggestivamente esordito così: «Uno spettro si aggira per l'Europa. È lo spettro di ciò che propongo di chiamare New Realism». Quale promotore di questa nuova corrente di pensiero, ce ne può illustrare i fondamenti concettuali, le idee che vi gravitano intorno e ne costituiscono le premesse?

«Quando ho coniato il termine nuovo realismo, un paio di mesi prima dell'articolo a cui lei fa riferimento, volevo indicare la necessità, per la filosofia, di superare la stasi in cui era venuta a trovarsi di fronte alla duplice irrilevanza del postmodernismo diventato puro paradosso e della filosofia analitica ridottasi a tecnica minuta. Non davo vita a un movimento, e i nuovi realisti sono accomunati, per dirla con Montale, da quello che non sono e da quello che non vogliono. Se dovessi esprimere la mia idea di nuovo realismo, è quella di una filosofia di grande respiro chiamata a dar conto della realtà in cui viviamo rispondendo a domande come: quando e quanto abbiamo accesso alla realtà? Quali sono le origini, i limiti e i condizionamenti della nostra iniziativa morale e della nostra azione politica? Che cosa è l'umano e qual è il suo posto nell'ambiente e tra gli altri viventi? Le grandi domande che la filosofia non può non porsi, e alle quali i miei maestri, per quanto grandi fossero, davano risposte limitate e sfuggenti, tra lo scetticismo del non ci sono fatti, solo interpretazioni e il settorialismo di la filosofia è un lavoro ben fatto, che non serve a niente».

Lei ha incardinato le concezioni del «nuovo realismo» in tre parole chiave: ontologia, critica, illuminismo. Può illustrarci il senso profondo di queste parole nel contesto in cui le inserisce?

«Ontologia significa chiedersi: che cosa c'è? Qual è la realtà in cui viviamo? A questa domanda si risponde spesso con un chiedilo alla scienza che non risolve nulla, perché la scienza ha poco da dirci, per esempio, sul mondo sociale. Oppure si risponde evocando figure arcaiche, come il Capitale, che sarebbe ancora la realtà del nostro tempo: no, non è così, il Capitale c'era una volta, oggi c'è dell'altro, quello che chiamo Documedialità, un intreccio tra burocrazia e media che non riflette in nulla la logica del capitale, e che va studiato con altri mezzi. Critica vuol dire che, contrariamente all'idea del pensiero pigro secondo cui il realismo è accettazione della realtà, l'accertamento della realtà è la condizione indispensabile per poterla trasformare. Se non lo si fa, ci penserà il reale a smentirci, come è puntualmente avvenuto in ogni momento della storia, e il nostro presente non fa eccezione: siamo sicuri che quello che si chiama così oscuramente populismo non sia il risultato di una analisi pigra e insufficiente delle nuove forme della realtà sociale? Conoscere la realtà non significa necessariamente riuscire a trasformarla, ma non conoscerla è una garanzia di fallimento. Illuminismo vuol dire, come diceva Kant: avere il coraggio e la volontà di sapere, cercare di pensare con la propria testa, e di farlo anche mettendosi nei panni degli altri. Sono regole di comportamento che vanno al di là dell'Illuminismo, un fenomeno storico ormai lontano, e che possono sembrare molto semplici, eppure non lo sono: basti dire che un fenomeno come la post-verità di cui tanto si parla sorge proprio dal rifiuto dell'Illuminismo».

Da una parte il mondo esterno e dall'altra i nostri schemi concettuali. In che rapporto stanno?

«Un idealista risponderebbe che il mondo esterno è costruito dai nostri schemi concettuali, trovandosi nell'imbarazzo di spiegare perché, allora, il mondo non ubbidisce ai nostri desideri. Un naturalista risponderebbe che gli schemi concettuali sono il risultato diretto di disposizioni fisiologiche, e si troverebbe nella difficoltà di spiegare perché, allora, il pensiero abbia tanta forza e indipendenza rispetto alla natura. Il realista dice: c'è l'ontologia, quello che c'è, in gran parte indipendentemente da quello che sappiamo (che io lo sappia o no, mangiare troppo fa ingrassare); poi c'è l'epistemologia, quello che sappiamo o che crediamo di sapere, e che interferisce molto poco con quello che c'è (il solo sapere che mangiare troppo fa ingrassare non fa dimagrire); infine c'è la tecnologia, quello che facciamo, e che assicura il transito tra quello che c'è e quello che sappiamo, e viceversa, e, per quella via, la trasformazione (so che mangiare troppo fa ingrassare; mi metto a dieta; dimagrisco)».

Lei ha osservato che il «nuovo realismo» nasce da una semplice domanda: «Che la modernità sia liquida e la postmodernità sia gassosa è vero o si tratta semplicemente di una rappresentazione ideologica? È un po' come quando si dice che siamo entrati nel mondo dell'immateriale e insieme coltiviamo la sacrosanta paura che ci cada il computer». Può approfondire?

«Siamo vissuti sotto il peso di due grandi illusioni molto ideologiche e che non riflettevano minimamente la realtà. La prima è appunto che la modernità e la postmodernità siano epoche di grande fluidità. Immagino che ci si riferisca al fatto che non ci sono più i lavori fissi, i matrimoni eterni, le appartenenze nazionali forti. Ma basta questo a dire che viviamo in un mondo evanescente? È vero il contrario: ogni nostra azione è registrata, dalla mail che spediamo al biglietto che compriamo. Non abbiamo mai lavorato tanto come adesso, picchiando su tasti di ogni sorta e spesso facendolo gratuitamente, sotto il peso di quella che a ben vedere è una responsabilità implacabile e nel quadro di una mobilitazione totale. In queste condizioni ha senso parlare di modernità liquida? Solo a patto che con liquido si intenda qualcosa di molto diverso da ciò che intende qualsiasi parlante normale, cioè si intenda qualcosa di pietroso, granitico, imperioso. Cioè solo a patto che si intenda che la modernità liquida è in realtà l'epoca più solida che l'umanità abbia conosciuto sinora. Meglio parlare di modernità solida, allora, e, venendo all'altra illusione, quella della immaterialità, di un mondo del virtuale che sarebbe un mondo dell'immateriale e dello spirito, meglio riconoscere che è più materiale che mai: il silicio è un minerale, non dimentichiamolo. Si tratta, semmai, di un mondo molto fragile, nel senso che basta poco (che so, un black out elettrico) per farlo scomparire. Ma la fragilità è una proprietà della materia, non dello spirito».

Veniamo alla nozione di «verità». Posto che lei considera la verità come intimamente connessa con la realtà, può darcene la sua definizione? La verità è una nozione relativa o assoluta?

«La verità è il risultato tecnologico del rapporto tra ontologia ed epistemologia. In un barattolo ci sono 22 fagioli (ontologia); li conto (tecnologia); enuncio la frase: in questo barattolo ci sono 22 fagioli (epistemologia). La frase è vera. Il barattolo ha un certo peso (ontologia); lo metto su una bilancia (tecnologia); enuncio la frase il barattolo pesa 100 grammi (epistemologia). Anche questa frase è vera. Se fossi negli Stati Uniti direi che il barattolo pesa 3 once e mezza, e sarebbe ugualmente vera, sebbene 3,5 e 100 siano due numeri diversi. Morale: la verità è relativa agli strumenti tecnici di verifica, ma assoluta rispetto alla sfera ontologica a cui fa riferimento, e alla esigenza epistemologica a cui risponde. Ciò che designiamo, nel linguaggio corrente, come assoluto e relativo indica, nella versione che propongo, due forme diverse di dipendenza della verità, rispetto alla ontologia e rispetto alla tecnologia».

Meglio una verità che, se pronunciata, produce danni o una bugia che salva?

«Kant dice che non bisogna mai mentire, nemmeno per il bene dell'umanità, e Woody Allen obietta che allora se la Gestapo mi chiede se Anna Frank è nel solaio, io sono costretto a dire che sì, è nel solaio. Io direi: nel caso di Anna Frank, è giusto mentire, avendo però piena consapevolezza del fatto che questa azione, giusta, non ci mette al riparo dal causare involontariamente delle conseguenze indesiderate (per quello che ne sappiamo, Anna Frank avrebbe potuto diventare leader di un partito xenofobo). E soprattutto avendo piena consapevolezza del fatto che il più delle volte la bugia che salva è pronunciata da noi a nostro vantaggio, dunque con un certo interesse di parte».

Da studioso di ermeneutica quale è, lei ha riconsiderato il rapporto tra lo spirito e la lettera di un testo secondo un ribaltamento delle loro gerarchie tradizionali o comunque novecentesche. Può chiarire gli aspetti salienti del problema nella loro prospettiva storica e concettuale, precisando la sua posizione al riguardo?

«Se io scrivo è vietato orinare sui muri (come si leggeva un tempo in Francia, dove la tradizione del vino e della birra è anche più forte che da noi) mi aspetto che ci si astenga dall'orinare sui muri. Chi, interpretando non secondo la lettera, ma secondo lo spirito, decidesse che si tratta di un invito a una ermeneutica radicale che interpreti gli orinatoi come opere d'arte (d'accordo con Duchamp) e i muri come orinatoi, deve essere consapevole, appunto, della devianza della sua ermeneutica rispetto alla interpretazione secondo la lettera. Non dimentichiamoci poi che se l'ermeneutico radicale in questione è un povero diavolo, potrebbe essere multato, e se è invece un potente potrebbe cavarsela con l'aiuto di un buon avvocato che sostenga che non ci sono fatti, solo interpretazioni, o di un addetto stampa che si richiami alla possibilità di verità alternative, con un'interpretazione secondo lo spirito che sarà ancora più efficace se il proprietario del muro è un povero diavolo».

Se il mondo esterno è «inemendabile», come lei sostiene, e ciò che è accaduto non lo possiamo cambiare nei fatti, tuttavia, se una sentenza decreta che A ha ucciso B, questa diventa la realtà anche nell'opinione comune, nelle cronache e forse anche nella storiografia. E non basta affermare che una sentenza si limita a produrre una verità processuale, dal momento che a tutti gli effetti (sociali, giuridici, storici ecc.) quella diventa la verità, addirittura la realtà. È così?

«No. È e resta un errore o una menzogna, anche se gli effetti sono realissimi. Almeno questo lo dobbiamo al povero disgraziato che, innocente, viene condannato. Così come il rimorso di chi, colpevole, viene assolto è la prova che non basta una interpretazione per cancellare un fatto. Non sono così ingenuo da pensare che tutti i colpevoli provino rimorsi, e so bene che la debolezza umana spinge ognuno di noi a crearsi degli alibi, o a rimuovere dei fatti. Ma, appunto, si tratta di alibi e di rimozioni, che provano l'indipendenza dei fatti dalle interpretazioni proprio come l'ipocrisia è l'omaggio che il vizio rende alla virtù».

È possibile una corretta interpretazione di un testo, dal testo letterario a una disposizione di legge?

«Certo che sì, ovviamente con margini di approssimazione. Nel mio piccolo, spero vivamente che si dia una corretta interpretazione di quanto sto dicendo ora. E questo vale a maggior ragione per testi infinitamente più importanti. Se in linea di principio fosse impossibile la corretta interpretazione di un testo, sarebbe inutile scrivere e, soprattutto nel caso della legge, il mondo sarebbe una ingiustizia infinita.

Il fatto che, malgrado i mille fraintendimenti a cui può essere esposto un testo si continui a scrivere (e oggi lo si fa incalcolabilmente più che un tempo) è la migliore dimostrazione del fatto che l'umanità confida nella corretta interpretazione dei testi».

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