Cultura e Spettacoli

Il vero conservatorismo è fonte di progresso

Houellebecq: come nella scienza, una teoria si abbandona solo per ragioni serie. È così che avvengono le rivoluzioni

Il vero conservatorismo è fonte di progresso

Il paradosso non è che apparente: il conservatorismo può esser fonte di progresso, così come la pigrizia è madre dell'efficacia. Ciò spiega in larga parte perché l'attitudine conservatrice sia così raramente capita.

Sin dalla sua apparizione nell'opera dell'astuto Lindenberg , nessuno, a mia conoscenza, è stato suscettibile di darle un qualche senso. Non definito a livello di comprensione, l'insieme non lo è nemmeno a livello di estensione, come finemente notava Jacques Braunstein su Elle. Il convegno di Deauville mi sembra abbia come primo obiettivo quello di uscire da questa situazione ambigua che, al di là dello sventurato Lindenberg, mette gravemente in causa la credibilità intellettuale del suo patrocinatore, lo sbirro Plenel e la consistenza stessa di un «pensiero di sinistra» di cui costituisce una delle ultime riverberazioni (come il fuoco morto degli astri già estinti, ecc.).

Allo scopo di evitare un fallimento pregiudizievole all'avvenire di ogni dibattito, tenterò qui di sgombrare un po' il campo. Ontologicamente, la reazione presuppone l'azione; se esistono dunque dei nuovi reazionari, ci devono essere dei nuovi progressisti. Come definirli? Riprendendo l'ingegnosa terminologia di Taguieff, assimileremo facilmente il nuovo progressismo al bougisme (neologismo che indica il movimentismo fine a se stesso, ndt) .

Contrariamente al suo fratello maggiore, il nuovo progressista non identifica il progresso con il suo contenuto intrinseco, ma con il suo carattere di novità. Vive insomma in una sorta di epifania permanente, molto hegeliana nella sua insulsaggine, nella quale tutto ciò che appare è buono per via del semplice fatto della sua apparizione. Sarà così altrettanto reazionario opporsi al tanga quanto al velo islamico, al «Loft» come alle prediche di Tariq Ramadan. Tutto ciò che appare è buono.

Il nuovo reazionario, all'opposto, restìo per principio alla novità, pare una specie di scorbutico; sarà esattamente, se i termini avessero il loro senso, quel che si dovrebbe chiamare un conservatore (realista sotto la monarchia, stalinista sotto Stalin, ecc.). Le due attitudini paiono di primo acchito ugualmente stupide, nella loro opposizione congiunta alla posizione di buon senso che consiste nell'approvare la novità se è buona, a rigettarla se è cattiva. Questa simmetria, tuttavia, è esatta solo parzialmente. A questo stadio si potrebbero proporre circa quattordici osservazioni; per mancanza di spazio, mi limiterò a due.

In prima battuta, l'innovazione stanca. Ogni routine, buona o cattiva, ha come vantaggio il fatto di esser routinaria, il fatto dunque di potere esser perseguita per mezzo di uno sforzo minimo. La radice prima di ogni conservatorismo è la pigrizia intellettuale. Ora, la pigrizia, spingendo alla sintesi, alla ricerca di tratti comuni al di là delle differenze in superficie, è intellettualmente una virtù potente. In matematica, tra due dimostrazioni di eguale rigore, si preferirà sempre la più breve, la quale affaticherà meno la memoria. L'abbastanza misterioso concetto di eleganza di una dimostrazione è di fatto quasi equivalente alla sua brevità (il che non ha nulla di sorprendente, se si considera che l'eleganza di un movimento può più o meno esser commisurata alla sua economia).

In seconda battuta, il metodo scientifico nel suo insieme (classicamente concepito come alternanza tra le fasi di elaborazione teorica e quelle di verifica sperimentale) ha come condizione prima una disposizione di pensiero essenzialmente conservatrice. Una teoria è una cosa preziosa, acquisita attraverso un'alta lotta, e uno scienziato non si rassegnerà ad abbandonarla se non nel caso in cui i fatti sperimentali vi ci obbligano in modo deciso. Non rinunciando a una teoria se non per delle ragioni serie, non sarà mai tentato di ritornarvi.

Questo conservatorismo ha dunque per principio come corollario la possibilità di progressi effettivi, nonché, se le circostanze vi ci obbligano, di autentiche rivoluzioni (chiamate «cambiamenti di paradigma» a partire da Kuhn). Non è dunque per nulla paradossale affermare che il conservatorismo sia fonte di progresso, così come la pigrizia è madre dell'efficacia.

La traduzione politica di tali principi, ne convengo, non ha niente di immediato; è per questo che l'attitudine conservatrice, moderatamente simpatica e dal contenuto ideologico debole, è così raramente capita. Per impiegare una metafora, dirò che il conservatore ha la tendenza a idealizzare la società sotto la forma di una macchina perfetta, nella quale il passaggio da una generazione all'altra si effettua per mezzo di uno sforzo minimo, nella quale si cerca di minimizzare le sofferenze e le costrizioni nello stesso modo in cui si cerca, in meccanica, di minimizzare gli sfregamenti (il che ha per esempio come conseguenza una limitazione drastica della densità di popolazione). In ogni circostanza, egli mediterà i principi, improntati a un taoismo pittavino, del defunto senatore Queuille (Henri Queuille, 1884-1970, ndt) (del tipo: «Non c'è nessun problema politico che non possa risolversi attraverso l'inazione»); non dimenticherà la sentenza del vecchio Goethe secondo la quale «meglio un'ingiustizia di un disordine», cinica soltanto in apparenza, tenuto conto del possente fermento di ingiustizie costituito da ogni disordine.

Uno degli ultimi conservatori autentici fu senza dubbio quel lord inglese, citato da Huxley, che scrisse nel 1940 una lettera alla posta dei lettori del Times per proporre di mettere fine alla guerra con un compromesso (il Times, «giornale un tempo conservatore», annota Huxley, rifiutò di pubblicare la lettera).

Cosciente che la vita degli uomini si svolge in un ambiente biologico, tecnico e sentimentale (vale a dire molto accessoriamente politico), cosciente che essa ha per obiettivo il perseguimento di obiettivi privati, avrà come unica convinzione politica marcata un rifiuto istintivo. L'uomo in rivolta, il resistente, il patriota, il fautore di scompiglio gli appariranno prima di tutto come degli individui disprezzabili, mossi dalla stupidità, dalla vanità e dal desiderio di violenza.

Contrariamente al reazionario, il conservatore non avrà quindi né eroi né martiri; se non salva nessuno, non farà nondimeno nessuna vittima; non avrà, riassumendo, nulla di particolarmente eroico; ma sarà, è questa una delle sue attrattive, un individuo ben poco pericoloso.

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