Cultura e Spettacoli

Il vero "Pazzo dello zar" è un saggio scrittore contro Hitler e Stalin

Un nobile (di nome e di fatto) che a inizio '800 critica l'assolutismo dei Romanov diventa simbolo della lotta contro tutti i regimi

Il vero "Pazzo dello zar" è un saggio scrittore contro Hitler e Stalin

«Le mie pagine non le leggerà nessuno, almeno finché sarò vivo. Perciò, anche se pecco di eccessiva onestà verso me stesso, non arriverà mai nessuno a gettarmi in qualche cella, sebbene una tale onestà non sia forse meno rara dell'eccessiva onestà verso lo zar...». Quando Jaan Kross mise in bocca (anzi, sulla penna perché si tratta di un diario) queste parole al suo personaggio, lo fece con tanto dolore, ma anche con un pizzico di ironia. Di autoironia. Perché lui, cioè Kross, in cella era finito per davvero, e non una volta, bensì due. Il primo «zar» a sbatterlo al fresco fu Adolf Hitler, il secondo fu Iosif Stalin, il quale poi gli regalò anche otto anni di gulag.Kross era infatti nato nel 1920 a Tallinn, in Estonia, e il suo Paese (che già aveva vissuto, dopo il dominio svedese durato dal XVI secolo al 1721, quello della corona russa dal 1721, appunto, al 1918), durante la seconda guerra mondiale subì sia l'occupazione sovietica, sia quella tedesca. Opporsi a entrambe era un dovere, e il giovane Jaan lo assolse, pagandone le conseguenze. Soltanto dopo l'inferno siberiano, conclusosi per lui nel '54, Kross poté diventare quello che già era in forza delle proprie esperienze e delle proprie conoscenze: un grande scrittore. E regalarci, fra l'altro, uno fra i più intensi e documentati romanzi storici del Novecento, in cui a parlare (anzi, a scrivere) in prima persona è proprio il personaggio di cui sopra, Jakob Mettich, cognato di Il pazzo dello zar.Il pazzo, l'uomo che osò dire al suo amico zar Alessandro I (perché prima erano amici...) ciò che il sovrano gli aveva chiesto di dire, cioè tutta la verità, l'uomo che, infischiandosene delle proprie origini altolocate si scagliò contro gli errori e gli orrori dell'assolutismo, contro l'inettitudine dei ministri, contro le meschinerie degli amministratori, e che si spinse fino ad abbozzare una costituzione democratica valevole per tutti i sudditi dell'impero, è davvero esistito. Si chiamava Timotheus von Bock. Estone come Kross, nacque a Tartu il 17 novembre 1787 e morì a Põltsamaa l'11 aprile 1836. Nove anni, dal 1818 al 1827, durò la detenzione patita dall'intrepido Timo a Schlüsselburg, in una sorta di Alcatraz.A raccontarci il prima, il durante e il dopo di questi nove anni che restano ancor oggi marchiati a fuoco nell'anima nazionale del Paese baltico è, con... l'aiuto dell'abile narratore Kross, scomparso nel 2007, proprio Jakob, con il suo diario. Nelle cui pagine, ora riproposte da Iperborea dopo l'edizione Garzanti del '94 (pagg. 433, euro 19, traduzione di Arnaldo Alberti), si dispiega un affresco composto da tante figure e tanti temi. In primo piano, l'amore: quello proibito di Timo per una contadina che diviene sua moglie, Eeva, la sorella di Jakob; quello segreto di Jakob, di professione agrimensore, ma fornito pure di buona cultura, per Jette, una ragazzina alla quale dà lezioni private di storia e matematica; quello sempre di Jakob per Anna, florida e focosa vedova con la quale mette su famiglia. Poi le dinamiche di un mondo diviso rigorosamente in classi, e in cui la nobiltà di fatto, non di diritto, è quella di chi abita ai piani bassi della piramide sociale; l'apparato spionistico che sorveglia Timo dopo la sua liberazione, concessa da Nicola I, successore di Alessandro I; e, infine, il «giallo» della morte dello stesso Timo, ultimo atto di una colossale rappresentazione di cui Kross, attingendo a fonti certe, compreso il memoriale choc di Timo inviato ad Alessandro I, è il regista.Il pazzo dello zar venne pubblicato, in quello che ancora era a tutti gli effetti un impero russo, nel 1978. Il cinquattottenne Kross si era messo alle spalle (soltanto cronologicamente) le persecuzioni subite dai due «zar» Hitler e Stalin. E la sua lucida follia lo indusse a celebrare la follia, meno lucida seppure altrettanto giustificata, del suo eroe Timo. Parlando a nuora perché suocera intenda, il romanzo prende due regimi con una fava. Nel passaggio dall'assolutismo zarista a quello sovietico erano cambiate (e, tutto sommato, neppure molto) le forme, non la sostanza. «Dunque in tutti quegli anni lei è sempre stato in Russia?», viene chiesto a un certo punto del libro al nobile von Bock. E lui risponde come avrebbe potuto rispondere lo stesso Kross: «... Non so che paese fosse. Forse non era la Russia... Comunque il cielo era così basso che bisognava stare chinati...». Perfetta metafora in cui lo «stare chinati» significa chinare il capo davanti alla crudeltà del potere costituito. «Ma quando quello che succede agli altri capita a noi stessi - riflette Jakob -, le cose cambiano radicalmente, assumono un altro aspetto...

E in generale: la Storia è la Storia e la Verità è la Verità, ma l'uomo dovrebbe avere il diritto di pretendere, se non proprio la pace dell'animo, almeno una sua piccola porzione d'ignoranza».

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