Cultura e Spettacoli

Il vero "Regalo di Natale" è sempre l'amicizia

Esce un libro sul film capolavoro (1986) di Pupi Avati. Ecco come Abatantuono prese il posto di Lino Banfi...

Il vero "Regalo di Natale" è sempre l'amicizia

Soldi, donne, amici. Ci puoi provare, ma non decidi tu cosa viene prima. Se ti farà soffrire di più il tradimento della fortuna, di un amore o di un compagno di scuola. La vita è lì, dandoti quello che crede, illudendoti sovente, perché «domani è un altro giorno» l'abbiamo sentito dire al cinema da ragazzi, ed è vero: può essere domani il giorno più bello. Ma di solito non avviene così.

Regalo di Natale parla di questo e per questo ha avuto il successo che ha avuto. È forse il nostro film più universale, ad oggi, quello dove la commedia dell'uomo è più rappresentata. In quella partita a poker tra amici c'è il meraviglioso inganno della vita. C'è, tra le righe, il cinema: o almeno, il perché noi abbiamo fatto il cinema, Pupi ed io. Un'avventura che è molto più che un lavoro, dove i soldi servono per tenere in vita un amore che a volte è un pretesto per stare insieme tra amici a parlarne.

Un amico, un compagno di avventure memorabili è stato Luciano Martino, produttore che «soldi, donne, amici» l'avrebbe potuto scrivere come epitaffio sulla sua tomba. Se n'è andato da non molto. Mi piacerebbe venisse ricordato. Voglio farlo io, qui.

Metà anni Ottanta. Un'Italia diversa, non so se migliore ma certo che immaginava un futuro migliore o lo lasciava sperare, col suo dinamismo. Anche grazie a uomini come Martino. Tuttavia, pure in quell'Italia più ottimista, gli sconfitti non mancavano. Non mancano mai ed è giusto così, perché nella sconfitta questo Pupi lo ha capito meglio di ogni altro viene fuori la verità dell'uomo. Alla fine, nel racconto, la fragilità diventa speranza. Trasformandosi in poesia, il dolore che prima o poi incontriamo tutti rivela un senso.

Quando siamo andati a proporre il soggetto a Luciano forse inconsapevolmente quella partita a poker, penso adesso, ci faceva venire in mente uno come lui. Uno che tirava tardi la sera e che cominciava la sua giornata, se possibile, a mezzogiorno. Un imprenditore che come il suo amico Berlusconi aveva fatto fortuna nel lavoro, nella vita e con donne straordinarie. Tra loro, una delle due o tre più belle del pianeta (Dante, che ci è caro, faceva le sue classifiche con Beatrice, permettetelo anche a me più modestamente!). Parlo di quella Edwige Fenech che, con il suo fisico stupefacente, aveva portato al successo la commedia erotica all'italiana, grazie alla mente un po' cinica e un po' geniale di Luciano e al talento registico di suo fratello Sergio.

Uno dei nostri pokeristi doveva essere Lino Banfi. Nei film di Martino, Banfi si era rivelato la spalla ideale della Fenech, emblema dell'italiano di provincia, cresciuto nel dopoguerra delle superstizioni e dei complessi, assalito dagli irrealizzabili sogni erotici che ci hanno raccontato Fellini e Brancati. Luciano, meridionale di origine anche lui ma del tutto romanizzato, era un tipo pragmatico. Un film doveva costare poco e rendere molto. Eravamo attratti da lui proprio perché ci trovavamo per tanti versi agli estremi opposti. Noi avevamo bisogno dei suoi soldi. Lui, come Banfi, poteva pensare con noi di entrare finalmente in un cinema con ambizioni artistiche. Come Carlo Delle Piane, passato in poco tempo grazie a Pupi da attore di b-movie, qual era diventato nel momento buio della sua carriera, a interprete ammirato.

Banfi accettò con entusiasmo, poi capita nel cinema ci «tradì» all'ultimo secondo per un film minore di un grande regista come Dino Risi: Il commissario Lo Gatto. Nel panico, ci consolò la filosofia di Luciano: invece di disperarci, «Morto 'n papa se ne fa n'artro». Bisognava pensare a qualcuno che nella categoria «attori», sotto la voce «considerazione della critica» fosse caduto ancora più in basso. Ma chi poteva essere lo sventurato? Il rischio di compromettere un copione perfetto c'era, e grosso. Il nome magico, in quelle sedute a tre trasformatesi in un consulto psicanalitico, fu pronunciato da Pupi: «Diego». Lo guardammo. «Mica dici Abatantuono?».

Dopo i grandi successi del «terrunciello», Diego Abatantuono aveva attraversato alcune delle maggiori catastrofi del cinema italiano, disprezzate dai critici e ignorate dal pubblico: un connubio letale. Fabrizio Corallo, l'amico di sempre che sapeva tutto di tutti quanto a contatti mondani, provò senza convinzione a darci un numero telefonico di Roma. Era noto che Abatantuono si era letteralmente eclissato dalla capitale; dove, non lo sapeva nessuno. Rispose una voce diversa dal tono sfrontato che l'aveva resa celebre. La voce di Diego. C'era un'incrinatura in quella voce (ci diceva come lo avevamo trovato assolutamente per caso, mentre stava per portare via definitivamente le sue cose dall'appartamento di una vecchia fidanzata), c'era una profonda verità, c'era uno smarrimento totale. Un tono che rese esemplare Diego nel ruolo che Regalo di Natale gli offrì, lui che nel film impersona la maschera in fondo più tragica, di fronte a un Delle Piane eccezionalmente ispirato dal primo secondo del primo ciak.

Regalo di Natale fu un grande successo. Un successo come Una gita scolastica, il film che alcuni anni prima ci aveva fatto conoscere Luciano. Senza il suo coraggio, che si unì a quello di altri dandoci una mano in un momento difficile, quel film così importante per la nostra carriera non ci sarebbe stato.

In ogni caso, grazie a questa riflessione su Luciano e su Regalo di Natale, mi sento di poter dare una risposta al dubbio iniziale su quale valore metterei per primo. Nell'infanzia ai soldi non ci pensiamo e gli amori sono lontani. Cosa esiste? Ci sono gli amici, di solito, se non altro per scambiarsi le figurine della propria squadra.

La felicità probabilmente è lì.

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